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Striscia la polemica

Formatoriginal/Alamy

“Non faremo pubblicità con famiglie omosessuali perché la nostra è una famiglia tradizionale. Se ai gay non piace la nostra pasta e la nostra comunicazione, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca”. Era il 25 settembre 2013 e Guido Barilla, presidente dell’azienda di famiglia, incalzato dai conduttori di Radio24 che gli chiedevano un commento sugli spot molto tradizionali scelti dall’azienda, aveva provocatoriamente lanciato un invito a boicottare la pasta Barilla.

Il giorno seguente, dopo le proteste delle associazioni lgbt+ e di alcuni esponenti politici, Guido Barilla ha fatto diramare una pigra nota di scuse, specificando che non intendeva offendere nessuno. In altri tempi in un paese come l’Italia, abituato alle esternazioni omofobe o razziste di personaggi pubblici e soprattutto poco avvezzo alla pratica anglosassone del boicottaggio, la questione si sarebbe chiusa lì.

L’evoluzione della famiglia
Ma, complici i social network, nei giorni seguenti è successo qualcosa che ha colto la Barilla del tutto impreparata: le parole dell’imprenditore si sono diffuse in brevissimo tempo, suscitando una reazione sdegnata di proporzioni incontrollate. Negli Stati Uniti, in particolare, sono scese in campo in modo massiccio associazioni militanti e grandi star dello spettacolo, che hanno invitato ad accogliere la richiesta di boicottaggio da parte del “produttore di pasta omofobo”. E la minaccia era molto seria, perché in Nordamerica i boicottaggi funzionano davvero.

L’azienda italiana ha così imparato sulla propria pelle che l’epoca delle sparate che restavano entro i confini italici era finita, perché ormai anche una semplice intervista radiofonica poteva avere effetti devastanti sulle vendite globali.

Il 28 settembre 2013, dopo che perfino Cher l’aveva ridicolizzato su Twitter, Guido Barilla è apparso con il volto contrito in un video pubblicato in italiano e in inglese in cui, sfoggiando più volte l’espressione nuova di zecca “evolution of the family”, si scusa di nuovo con i consumatori che ha offeso, in modo più sentito rispetto allo sbrigativo comunicato stampa dei giorni precedenti.

Le scuse di Guido Barilla


L’imbarazzo dell’alta moda
“Da adesso in poi dirò in tutte le interviste con giornalisti stranieri che la Cina è un paese di merda”. L’infelice uscita stavolta è di Stefano Gabbana, la metà notoriamente più irriverente della casa di moda Dolce & Gabbana.

Siamo nell’autunno del 2018 e l’azienda ha messo in circolazione lo spot per il lancio di una grande sfilata in Cina in cui una modella cinese tenta di mangiare con le bacchette alcune specialità italiane. Diet Prada, un influente account di Instagram che milita per l’integrità e la responsabilità del settore della moda, accusa il filmato di utilizzare stereotipi razziali al limite dell’offensivo.

La polemica si trasforma in rissa quando Diet Prada pubblica alcuni presunti messaggi inviati a una propria collaboratrice da Stefano Gabbana, in cui lo stilista apostrofava i cinesi come popolo di mafiosi puzzolenti e di mangiatori di cani, e prometteva che non avrebbe mai chinato la testa nei loro confronti.

Gabbana, però, come Barilla prima di lui, non aveva fatto i conti con quello spietato megafono che sono i social network e con la passione quasi anglosassone con cui la Cina ha cominciato a boicottare i suoi prodotti. Mentre un numero crescente di distributori e piattaforme di e-commerce cinesi ha smesso di vendere le collezioni della casa di moda milanese, la grande sfilata prevista per i giorni successivi all’istituto di cultura di Shanghai è stata cancellata.

A poco è servito il tentativo di riparare di Gabbana, che ha cercato di scaricare su fantomatici hacker la responsabilità dei messaggi razzisti. Alla fine ha dovuto piegare la testa: il 23 novembre 2018 lui e Domenico Dolce, con il visto contrito ormai d’obbligo per l’occasione, si sono presentati in un severo filmato espiatorio chiedendo scusa a tutti i cinesi nel mondo, perché – ha sottolineato Gabbana con un’uscita involontariamente comica – “ce ne sono molti”. E anche questa volta un’azienda italiana ha deciso che salvaguardare il proprio giro di affari in un grande mercato estero era più importante dell’orgoglio di un suo dirigente.

Le scuse di Domenico Dolce e Stefano Gabbana


Questioni di famiglia
Arriviamo così alla puntata più recente di questo excursus con un caso di cui si è parlato molto nelle settimane scorse: durante una puntata del tg satirico Striscia la notizia, i conduttori Gerry Scotti e Michelle Hunziker lanciano un servizio sulla nuova sede Rai in Cina mimando gli occhi a mandorla e facendo il verso alla pronuncia cinese.

In realtà, però, più che Striscia la notizia questo episodio riguarda di nuovo un’azienda molto popolare in Cina e nel resto del mondo. Michelle Hunziker è infatti compagna di Tommaso Trussardi, figlio del fondatore dell’omonima azienda. Ed è un dettaglio che Diet Prada, di nuovo artefice della diffusione della gaffe a livello internazionale, non ha mancato di sottolineare, presentando Hunziker come “a member of the Trussardi family” e taggando anche il suo compagno nel post.

Se fosse stata solo una gag di Striscia non ci sarebbe stato nessuno scandalo, come conferma il fermo rifiuto del regista Antonio Ricci di scusarsi in alcun modo per l’accaduto. Ma grazie agli oltre due milioni di follower di Diet Prada, all’estero la notizia rischiava di diventare “La moglie di Trussardi prende in giro i cinesi”.

Il pericolo quindi era che la Trussardi fosse travolta da uno tsunami simile a quello che si era abbattuto anni prima su Dolce & Gabbana. La soluzione è stato un messaggio di scuse, in italiano e inglese, nel quale Hunziker dice di essersi “resa conto che viviamo in un’epoca in cui le persone sono sensibili ai loro diritti” e si proclama profondamente dispiaciuta per la propria condotta. Nella versione inglese delle scuse si rivolge proprio a Diet Prada.

Finale: il fatturato
In Italia tutti e tre gli episodi citati sono stati seguiti da un vivace dibattito sul politicamente corretto, in cui spesso è stata tirata in ballo la libertà d’espressione e la cancel culture: “Non si può dire più niente”; “si tratta di satira”; “ognuno è libero di promuovere il modello di famiglia che crede”.

In realtà, però, a determinare il deciso dietro front dei personaggi coinvolti è stato soprattutto l’elemento economico. Senza minacce sul fatturato estero delle aziende a cui sono direttamente o indirettamente collegati, è presumibile che nessuno dei tre si sarebbe lanciato in tali profusioni di scuse. Barilla se la sarebbe cavata con quel misero comunicato stampa del giorno dopo e da Striscia la notizia non sarebbe arrivato neanche quello di Hunziker.

La reazione dei consumatori internazionali ha invece fatto capire alle aziende italiane che in un mondo altamente connesso il loro livello di correttezza dev’essere lo stesso in tutti i paesi in cui operano. E in alcuni casi l’effetto è stato sorprendente: il video di scuse di Guido Barilla è stato il primo passo di un percorso che in pochi anni ha miracolosamente trasformato la Barilla in una delle multinazionali più all’avanguardia nel rispetto della diversità e dei diritti civili. E anche se a innescare questo processo è stato un interesse economico, nessuno può negarne l’enorme impatto dal punto di vista sociale.

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