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Nei sotterranei di Pechino vive un’umanità distopica

Pechino, il 25 novembre 2016. (Qilai Shen, Bloomberg/Getty Images)

La signora Lu raccoglie la spazzatura dello xiaoqu, il complesso residenziale dove sono andato a vivere, tra il secondo e il terzo anello delle circonvallazioni pechinesi. Ogni giorno, mentre tra i vialetti di questo quartiere perimetrato scorre indifferente la gente che ci vive, lei divide i rifiuti e li ammassa in buon ordine nello spiazzo dove c’è l’uomo del camion che li porta via. Lui, per non sporcarsi, indossa un camice blu da bidello. Lei no. C’è una grossa bilancia, li pesano e li caricano sul camion a cassone aperto. Plastica, cartone: la raccolta differenziata, in Cina, avviene a valle, non a monte. Poi il camion parte per qualcuna delle discariche che circondano la metropoli.

La signora Lu viene dallo Henan e parla in mandarino con un accento incomprensibile per me che sono già duro di comprendonio. Tutte le “sh” diventano “s” o “z” e visto che il cinese è pieno di “sh”, “s” e “z” io mi trovo in un universo indifferenziato come se fossi un gatto finito per sbaglio in una lavatrice. Le sue due figlie ci guardano divertite perché nel giro di tre frasi ci mettiamo entrambi a urlare pretendendo di scandire meglio quanto stiamo dicendo, senza speranza che l’altro capisca. A quel punto si degnano di tradurre.

La signora Lu e le sue due figlie vivono sotto terra, nel palazzo di diciotto piani dove abito.

Ascensori sociali
Oltre a raccogliere e suddividere la spazzatura di tutto lo xiaoqu, gestiscono i posti per le biciclette nello scantinato. Il parcheggio per un anno costa 70 renminbi (una decina di euro), mi hanno assegnato il numero 88 e, dato che l’8 è il numero fortunato per eccellenza e che vivo nell’appartamento 808, il mio futuro sarà senz’altro radioso.

La loro casa è uno sgabuzzino la cui unica finestra dà sulla discesa nello scantinato, al chiuso; poi c’è un lavandino nel corridoio di fianco ai posti-bici e una porticina che dà sul gabinetto alla turca. Sopra scorrono i grossi tubi del riscaldamento e di tutto il resto, a uno hanno appeso i vestiti ad asciugare. Se c’è il sole, li appendono fuori, su un filo che attraversa un’aiuola. Oggi c’era il marito della signora Lu che li batteva con un bastone.

In Condominium (1975), James Ballard racconta come l’umanità concentrata in un grattacielo londinese regredisca allo stato di violenza primordiale di fronte a piccoli inconvenienti quotidiani. È una umanità borghese, come spesso nei romanzi di Ballard, ma suddivisa lungo una scala sociale che corrisponde ai piani del palazzo: al primo piano vive il regista “che è venuto su dal nulla”, all’ultimo – cioè il quarantesimo – l’archistar che ha costruito il grattacielo stesso.

Nelle cui simil-catacombe si spera però ancora di vedere la luce del sole

Nel mio palazzo di Pechino, questa verticalità scende di un gradino, sia sociale sia altimetrico. Sotto terra, vive la signora Lu; al quinto, una coppia di mezza età che è perfino stata in gita in Italia e mi ha invitato a prendere il tè; all’ottavo ci sto io; al diciottesimo e ultimo, altre famiglie della piccola borghesia di recente costituzione.

Ma altrove – non in questo palazzo tutto sommato popolare dove uno dei due ascensori non funziona da quando mi ci sono trasferito – la verticalità si esaspera. Sotto terra c’è il “la tribù dei ratti” che esce a caccia di rifiuti; al quarantesimo, il megastudio o l’appartamento tutto marmi. Proprio come in Ballard, ma qui l’elastico si tende ulteriormente, così come la disuguaglianza sociale della Cina moderna. Eppure, non c’è violenza apparente.

“Tribù dei ratti” non è un termine scelto a caso: shu zu è il nome con cui sono conosciuti. A Pechino si stima siano almeno 200mila, sono tutti migranti che non hanno l’hukou – il permesso di residenza – occupano scantinati e tunnel sotterranei, e sono stati già più volte raccontati sui media occidentali. Ma di solito il tono della narrazione è pelosamente compassionevole.

Invece i “ratti” lavorano, agiscono, si muovono, sono inseriti in un ciclo produttivo; vivi, umani. Ho conosciuto una giovanissima cameriera dal sorriso contagioso che veniva dallo Hunan e che così spiegava: “Spendo duecento renminbi e sto a poche centinaia di metri dal lavoro, altrimenti dovrei andare al sesto anello”. L’umanità eccede sempre la descrizione pietosa che se ne fa. Non è il decadente e borghese condominium ballardiano, questo, è un sistema estremamente diseguale nelle cui simil-catacombe si spera però ancora di vedere la luce del sole.

Il terzo spazio
Hao Jingfang, una scrittrice di fantascienza cinese, ha vinto il premio Hugo nel 2016 con Beijing zhedie, “Pechino pieghevole” (Folding Beijing era il titolo nella traduzione inglese), un racconto in cui la città è divisa in tre diversi mondi che condividono lo stesso spazio e si alternano a cicli di 48 ore: quando la ricca Pechino 1 si “piega” su se stessa, tutti i suoi abitanti vanno a dormire sotto un potente narcotico, e sorgono Pechino 2 e 3, i mondi inferiori. Il protagonista del racconto è Lao Dao, un raccoglitore di rifiuti del terzo spazio che parte per una missione attraverso gli altri due. Come la signora Lu.

Hao Jingfang radicalizza la divisione che c’è già nel mio e in altri palazzi. Il futuro della Cina dipende dalla possibilità di accorciare lo spazio tra lo scantinato della signora Lu e il 18º piano. Altrimenti, se l’elastico si tenderà ancora, ci troveremo nella Pechino della metafora di Hao.

Prima di trasferirmi nel nuovo/vecchio xiaoqu stavo più in centro, negli hutong, cioè i vicoli che tanto ricordano un villaggio trapiantato in mezzo alla metropoli, ma che sono in fase di gentrificazione accelerata. Vivevo entro il secondo anello e pensavo di essere nella Pechino “tipica”. Ora invece vedo una città più reale, ecco la nuova tipicità pechinese. Chissà quante storie incontrerei andando ancora più in là, fino al sesto anello. E chissà che avrebbe detto James Ballard, che per altro nacque a Shanghai, se avesse potuto vedere questa “sua” Cina così distopica.

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