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Sul Covid-19 il mondo può imparare dagli errori dell’Italia

La disinfezione di piazza del Duomo, Milano, il 31 marzo 2020. (Flavio Lo Scalzo, Reuters/Contrasto)

I politici di tutto il mondo cercano di trovare una soluzione per arginare la pandemia di Covid-19, ma si muovono in un territorio inesplorato. Si è parlato molto delle misure e delle politiche adottate da paesi come la Cina, la Corea del Sud, Singapore e Taiwan. Sfortunatamente, in gran parte dell’Europa e negli Stati Uniti è ormai troppo tardi per contenere la malattia nella fase embrionale del contagio. I governi non riescono a tenere il passo della pandemia e stanno ripetendo molti degli errori commessi inizialmente in Italia, dove la diffusione del virus ha avuto effetti disastrosi. L’obiettivo di questo articolo è aiutare i politici europei e statunitensi, a qualsiasi livello, a imparare dai passi falsi dell’Italia e a riconoscere e superare la sfida inedita rappresentata da questa crisi.

Nell’arco di poche settimane (dal 21 febbraio al 22 marzo) l’Italia è passata dalla scoperta del primo caso di Covid-19 a un decreto del governo che sostanzialmente ha vietato qualsiasi movimento all’interno del territorio nazionale, e ha fermato tutte le attività commerciali e produttive non essenziali. In questo breve lasso di tempo il paese è stato travolto da uno tsunami, con un flusso apparentemente inarrestabile di nuovi decessi. È sicuramente la peggiore emergenza vissuta dall’Italia dopo la seconda guerra mondiale.

Alcuni aspetti della crisi – a cominciare dalla tempistica – possono essere attribuiti alla sfortuna e dunque sfuggono al pieno controllo delle autorità. Ma altri elementi sono emblematici delle difficoltà dei leader italiani di comprendere la portata della minaccia, organizzare una risposta sistematica e imparare dai successi, e soprattutto dai fallimenti, delle prime misure adottate.

Queste difficoltà, è giusto sottolinearlo, sono emerse anche dopo che il Covid-19 ha colpito la Cina, e quando alcuni modelli alternativi per il contenimento del virus (in Cina e in altri paesi) erano già stati applicati con successo. Questa realtà, più che una mancanza totale di conoscenza dei provvedimenti da applicare, suggerisce un’incapacità sistemica di recepire le informazioni disponibili e agire in modo rapido ed efficace. Analizzando l’origine di questi errori dovuti alla difficoltà di prendere decisioni tempestive davanti a una crisi, proveremo a suggerire un modo per evitarli.

Riconoscere i propri preconcetti cognitivi
All’inizio della diffusione del virus, l’epidemia di Covid-19 in Italia non era considerata un’emergenza sanitaria. I primi segnali d’allarme sono stati accolti con scetticismo sia dall’opinione pubblica sia da molti politici, anche se moltissimi scienziati dicevano da settimane che c’era il rischio di una catastrofe. Alla fine di febbraio, a Milano, alcuni importanti esponenti politici hanno organizzato eventi pubblici (con tanto di strette di mano) per sottolineare la necessità di non fermare l’economia a causa del virus. Una settimana dopo uno dei politici coinvolti è risultato positivo al test per il Covid-19.

Ci sono state reazioni simili in altri paesi, a conferma di quello che gli scienziati comportamentali chiamano “bias di conferma”, cioè la tendenza a concentrarsi sulle informazioni che rafforzano la nostra opinione e le nostre ipotesi iniziali. Le pandemie si sviluppano in modo non lineare (partono lentamente ma si intensificano seguendo una tendenza esponenziale) e quindi sono particolarmente difficili da affrontare, perché presuppongono la capacità di interpretare in tempo reale quello che sta succedendo. Il momento migliore per prendere provvedimenti efficaci è quello iniziale, quando il pericolo sembra essere trascurabile o perfino quando non si registrano contagi. Il problema è che una strategia di questo tipo, quando funziona, è considerata a posteriori un eccesso di zelo. È un rischio che molti politici non sono disposti a correre.

Il desiderio di agire spinge i politici ad affidarsi al proprio istinto o alle opinioni della loro cerchia ristretta

L’incapacità sistematica di ascoltare gli esperti dimostra che i leader nazionali – e le persone in generale – fanno fatica a reagire in situazioni difficili e complesse in cui non esiste una soluzione facile. Il desiderio di agire spinge i politici ad affidarsi al proprio istinto o alle opinioni della loro cerchia ristretta, ma in circostanze di estrema incertezza bisogna resistere a questa tentazione. Al contrario, è importante prendersi il tempo di studiare, organizzare e assorbire le informazioni fornite dagli esperti di diverse discipline.

Evitare soluzioni parziali
La seconda lezione da imparare dall’esperienza italiana riguarda l’importanza di adottare un approccio sistematico e la pericolosità delle soluzioni parziali. Il governo italiano ha risposto all’epidemia emanando una serie di decreti che hanno aumentato gradualmente le restrizioni nelle aree isolate (“zone rosse”), per poi allargarle progressivamente a tutto il territorio nazionale.

In circostanze normali un approccio simile potrebbe essere considerato prudente, se non addirittura saggio. Ma in questo caso ha avuto conseguenze disastrose, per due motivi. Per prima cosa la risposta non è stata adeguata alla rapida diffusione del virus. I “fatti sul campo”, semplicemente, non erano sufficienti per prevedere quale sarebbe stata la situazione pochi giorni dopo. Quindi l’Italia ha seguito la diffusione del virus invece che anticiparla. In secondo luogo, l’azione selettiva potrebbe aver facilitato inavvertitamente il contagio. Consideriamo la decisione iniziale di isolare solo alcune regioni: l’annuncio del decreto che avrebbe comportato la chiusura dell’Italia del nord ha innescato un esodo verso le regioni meridionali, portando il Covid-19 in aree dove in quel momento non era ancora presente.

Nel reparto dedicato al Covid-19 nell’ospedale Casalmaggiore, in provincia di Cremona, il 2 aprile 2020.

Questo meccanismo conferma quello che pensano ormai molti esperti: una risposta adeguata al virus deve essere concepita come un sistema coerente di azioni simultanee, come dimostrano i risultati dei provvedimenti presi in Cina e in Corea del Sud. Anche se spesso il dibattito pubblico sulle politiche introdotte da quei due paesi si concentra sui singoli elementi dei rispettivi modelli (come i test diagnostici a tappeto), il loro successo dipende da una varietà di misure introdotte contemporaneamente. I tamponi sono efficaci quando sono abbinati a un’attenta tracciatura delle interazioni, che a sua volta funziona solo se affiancata da un sistema di comunicazione appropriato che raccolga e distribuisca informazioni sui movimenti delle persone potenzialmente infette.

Queste regole si applicano anche all’organizzazione del sistema sanitario. È indispensabile che gli ospedali si riorganizzino, per esempio creando percorsi diversificati per i malati di Covid-19. Inoltre è fondamentale passare da modelli terapeutici incentrati sul paziente a sistemi allargati che offrono soluzioni pensate per tutta la comunità (con una particolare enfasi sull’assistenza domiciliare). In questo momento la necessità di azioni coordinate è particolarmente acuta negli Stati Uniti.

La conoscenza è cruciale
Per individuare il giusto approccio sul campo è importante saper imparare rapidamente dai successi e dai fallimenti, agendo di conseguenza. Sicuramente possiamo trarre spunti utili dal comportamento di paesi come Cina, Corea del Sud, Taiwan e Singapore, capaci di contenere l’epidemia in tempi relativamente brevi. Ma a volte gli esempi da seguire sono molto più vicini. Il sistema sanitario italiano è estremamente decentralizzato, e le regioni hanno adottato politiche diverse. Il caso più lampante riguarda la discrepanza tra la risposta della Lombardia e quella del Veneto, due regioni confinanti con profili socioeconomici simili.

La Lombardia, una della aree più ricche e produttive d’Europa, è stata colpita in modo sproporzionato dal Covid-19. Secondo i dati aggiornati al 2 aprile, nella regione ci sono circa 44mila casi e sono morte più di settemila persone, su una popolazione complessiva di dieci milioni di abitanti. Il Veneto, invece, ha fatto registrare numeri nettamente migliori, con novemila casi e 499 decessi su una popolazione di cinque milioni di persone, e questo nonostante una diffusione importante dei contagi nella fase iniziale.

La Lombardia, una della aree più ricche e produttive d’Europa, è stata colpita in modo sproporzionato

Il fatto che le due regioni abbiano seguito traiettorie diverse dipende da fattori che esulano dal controllo delle autorità, tra cui la maggiore densità di popolazione della Lombardia e un maggior numero di casi nel momento in cui la crisi è esplosa. Tuttavia, sembra sempre più evidente che le diverse scelte dei due sistemi sanitari all’inizio del ciclo della pandemia hanno avuto effetti sostanziali.

Le due regioni hanno adottato modelli simili rispetto al distanziamento sociale e alla chiusura dei negozi, ma il Veneto ha prestato più attenzione alle misure preventive. La strategia delle autorità venete è stata particolarmente diversificata:

  • Tamponi a tappeto su persone sia sintomatiche sia asintomatiche nella fase iniziale della crisi.
  • Tracciatura efficace delle interazioni. Se una persone risultava positiva, i tamponi venivano effettuati anche su tutti i conviventi e i vicini. In mancanza del kit per l’analisi dei campioni, tutti gli individui a rischio venivano sottoposti a isolamento.
  • Particolare attenzione riservata alla diagnosi e alle cure a domicilio. Dove possibile sono stati raccolti campioni direttamente nell’abitazione del paziente, per poi analizzarli nei laboratori regionali e universitari.
  • Misure specifiche per monitorare e proteggere gli operatori sanitari e le altre categorie essenziali, tra cui medici, individui in contatto regolare con persone a rischio (per esempio i dipendenti delle case di riposo) e lavoratori esposti al pubblico (cassieri dei supermercati, farmacisti e assistenti sociali).

La Lombardia, sotto la guida delle istituzioni sanitarie del governo centrale, ha optato invece per un approccio più conservativo nell’analisi dei campioni. Le autorità Lombarde hanno fatto solo la metà dei tamponi pro capite rispetto al Veneto, concentrandosi soprattutto sui sintomatici. Finora la Lombardia ha investito poco nella tracciatura preventiva, nell’assistenza domiciliare e nella protezione degli operatori sanitari.

Al momento sembra che le misure adottate in Veneto abbiano ridotto considerevolmente il carico sugli ospedali e minimizzato il rischio di una diffusione del contagio in ambienti sanitari, un problema che ha invece colpito le strutture ospedaliere lombarde. Il fatto che politiche diverse abbiano prodotti risultati diversi in regioni simili avrebbe dovuto fornire fin dall’inizio spunti importanti. Gli effetti incoraggianti del “modello veneto”, in questo senso, avrebbero potuto essere sfruttati per modificare tempestivamente le politiche del governo centrale. Invece solo negli ultimi giorni, a un mese di distanza dallo scoppio dell’epidemia in Italia, le autorità della Lombardia e di altre regioni hanno deciso di emulare (in parte) l’approccio dei colleghi veneti, chiedendo al governo di Roma un contributo per rafforzare la capacità diagnostica.

Gli uffici dell’anagrafe a Roma, il 27 marzo 2020.

La difficoltà di trasmettere conoscenze appena acquisite è un fenomeno molto diffuso nelle organizzazioni sia pubbliche sia private. Tuttavia restiamo convinti che accelerare la diffusione delle informazioni derivate dalle diverse scelte politiche (in Italia e altrove) dovrebbe essere una priorità assoluta in un momento in cui “ogni paese sta reinventando la ruota”, come hanno sottolineato molti scienziati. Per riuscirci, soprattutto in un contesto incerto come quello attuale, è fondamentale considerare le diverse misure come fossero “esperimenti”, tralasciando gli interessi personali e politici per adottare misure, sistemi e processi che possano sfruttare in modo rapido ed efficace le esperienze passate e attuali nella lotta contro il Covid-19.

È essenziale capire cosa non funziona. Mentre i successi emergono facilmente grazie alla volontà dei leader politici di rivendicare i progressi, i problemi vengono spesso nascosti per paura delle critiche, o quando emergono vengono interpretati come mancanze individuali invece che di sistema. Per esempio, oggi sappiamo che all’inizio dell’epidemia (25 febbraio) il contagio in Lombardia potrebbe essere stato favorito dal fatto che un ospedale locale non ha individuato e prontamente isolato un paziente affetto da Covid-19. Parlando con i mezzi d’informazione, il presidente del consiglio italiano ha citato questo episodio come esempio dell’inadeguatezza gestionale nella struttura coinvolta. Un mese dopo, però, è sembrato evidente che quella era solo la prima manifestazione di un fenomeno più ampio: gli ospedali organizzati per fornire cure centrate sul paziente non sono nelle condizioni di adottare quell’approccio focalizzato sulla comunità, indispensabile durante una pandemia.

Raccogliere e condividere dati è cruciale
L’Italia sembra aver avuto due problemi relativi ai dati. All’inizio della pandemia la difficoltà era causata dalla carenza di informazioni. Nello specifico, è probabile che la diffusione intensa e silenziosa del virus nei primi mesi dell’anno sia stata facilitata dalla mancanza di competenze epidemiologiche e dall’incapacità di alcuni ospedali di registrare sistematicamente i picchi anomali di infezioni.

Più di recente il problema ha riguardato soprattutto la precisione dei dati. In particolare, nonostante i lodevoli sforzi del governo italiano nell’aggiornare regolarmente le statistiche su un sito internet aperto al pubblico, alcuni opinionisti sostengono che la netta discrepanza nei tassi di letalità tra l’Italia e gli altri paesi (ma anche tra le regioni italiane) possa derivare almeno in parte da strategie diverse nell’uso dei test. Questa discrepanza complica enormemente la gestione della pandemia, perché in assenza di dati sovrapponibili (all’interno e all’esterno dei confini nazionali) è più difficile assegnare le risorse disponibili e capire cosa funziona (per esempio cosa impedisce un tracciamento efficace).

In uno scenario ideale i dati che documentano la diffusione e gli effetti del virus nelle regioni e negli stati dovrebbero essere più standardizzati possibile, illustrando la progressione e il contenimento del virus a livello “macro” (stato) e “micro” (ospedale). La necessità di disporre di dati specifici a livello “micro” non può essere sottovalutata. Anche se spesso il dibattito sulla qualità dell’assistenza sanitaria si concentra sulle macro-entità (stati e regioni), è risaputo che le strutture presentano enormi differenze qualitative e quantitative rispetto ai servizi che forniscono e alle capacità gestionali, anche all’interno di uno stato o di una regione. Invece di nascondere queste divergenze dovremmo esserne pienamente consapevoli e pianificare di conseguenza l’assegnazione delle risorse. Solo disponendo di dati a tutti i livelli i politici e le istituzioni sanitarie possono valutare il modo migliore di agire.

Un modo diverso di prendere le decisioni
Al momento esiste ancora una grande incertezza su cosa sia necessario fare per fermare il virus. Diversi aspetti cruciali del Sars-CoV-2 sono sconosciuti e al centro di un acceso dibattito scientifico, e probabilmente questa situazione non cambierà nell’immediato futuro. Inoltre siamo ancora costretti a lunghe attese tra il momento dell’azione (che in molti casi non è altro che inazione) e i relativi risultati, sia rispetto al contagio sia ai decessi. Dobbiamo accettare l’idea che serviranno mesi, se non anni, prima di avere una conoscenza adeguata di quali siano le risposte più adatte per fermare il Covid-19.

In ogni caso dall’esperienza italiana è possibile trarre due insegnamenti. Il primo è che non c’è tempo da perdere davanti alla progressione esponenziale del virus. Come ha sottolineato il capo della Protezione civile italiana, “l’epidemia va più veloce della nostra burocrazia”. Il secondo è che una reazione efficace contro il Covid-19 richiede una mobilitazione simile allo sforzo bellico, sia in termini di risorse umane ed economiche sia di coordinazione dei diversi ambiti del sistema sanitario (laboratori per l’analisi dei campioni, ospedali, medici di famiglia) da parte dei diversi enti del settore pubblico e privato oltre che della società in generale.

Una risposta efficace all’emergenza, con una mobilitazione massiccia e un intervento immediato, implica inevitabilmente un approccio decisionale straordinario. Se i politici vogliono sconfiggere il Covid-19 devono adottare un metodo sistemico, dando la precedenza alla raccolta di informazioni e alla capacità di riproporre su vasta scala gli esperimenti positivi e accantonare quelli inefficaci. È un compito estremamente difficile, soprattutto nel contesto di una crisi così devastante. Ma dobbiamo riuscirci. La posta in gioco ce lo impone.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato dalla Harvard Business Review.

Gary P. Pisano è docente di amministrazione d’impresa e preside associato della facoltà di economia di Harvard. Ha scritto Creative Construction: The Dna of Sustained Innovation.

Raffaella Sadun è docente di amministrazione d’impresa della facoltà di economia di Harvard. Le sue ricerche si concentrano sull’economia della produttività, della gestione e del cambiamento organizzativo nel settore pubblico e in quello privato.

Michele Zanini è il direttore esecutivo di Management Lab e co-autore di Humanocracy: creating organizations as amazing as the people inside them (Harvard Business Review Press, di prossima pubblicazione).

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