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Kamasi Washington libera il jazz da ogni limite

Kamasi Washington nel 2015. (Mike Park)

Kamasi Washington sembra un santone africano. Indossa una tunica nera e al collo porta un grosso ciondolo. Cammina aiutandosi con un bastone di legno decorato con l’immagine di un leone, perché qualche mese fa ha avuto un infortunio alla caviglia. Si siede su un tavolo dentro al giardino del Magnolia, il locale milanese dove poche ore dopo si esibirà per la prima data del suo tour italiano. È la settima volta che suona nel nostro paese tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016.

Del resto negli ultimi mesi il 35enne Kamasi, nato e formatosi musicalmente a Los Angeles, ha vissuto un po’ da nomade, girando il mondo per promuovere il suo esordio The epic, uno degli album jazz più importanti degli ultimi anni. Un disco che ha convinto gli appassionati del genere e ha conquistato un pubblico tradizionalmente ostico: i giovani. Non è un caso che Washington si sia esibito al Blue Note ma anche a festival come Coachella, Primavera sound e Glastonbury.

Da molti anni un album jazz non raccoglieva un consenso così ampio e trasversale negli Stati Uniti e in Europa. Forse perché la musica di Washington suona tanto classica quanto avventurosa. È un sentito omaggio alla spiritualità di John Coltrane e alla psichedelia di Sun Ra, ma è anche profondamente radicata nella contemporaneità. Washington, del resto, ha suonato, tra gli altri, con Kendrick Lamar (il suo sax è una delle chiavi di volta del capolavoro To pimp a butterfly), Snoop Dogg, Lauryn Hill e Ryan Adams.

Con la sua band, The Next Step, Kamasi Washington regala concerti straordinari. Quando si vede un suo spettacolo, sembra di salire su una macchina del tempo diretta verso l’epoca d’oro della musica afroamericana. L’ho incontrato poche ore prima del suo concerto milanese.

Poco più di un anno fa è uscito The epic. Che impressione ti fa il disco dopo tutti questi mesi?
Ne sono orgoglioso, perché rappresenta bene chi sono. Questo era il mio obiettivo principale quando l’ho registrato. Per diversi anni ho fatto musica per gli altri e avevo un po’ perso la mia identità. Con The epic l’ho ritrovata, mi sono riappropriato delle mie radici. Il suo successo però mi ha stupito, non mi aspettavo una reazione del genere da parte del pubblico.


The epic è un album complesso, che dura quasi tre ore. Ci vuole un discreto coraggio a pubblicare un disco d’esordio del genere, non credi?
In realtà all’inizio non volevo farlo così lungo. Avevo un sacco di idee e ho registrato 45 canzoni. Poi ho cominciato a fare dei tagli e sono arrivato piano piano a 17 brani. Mi sono sbloccato quando ho trovato l’arrangiamento per Change of the guard, il primo pezzo: da lì ho cominciato a immaginare l’album come un unico, grande viaggio e ho deciso che le canzoni sarebbero rimaste 17, non volevo rinunciare a nessun pezzo del puzzle.

Il titolo del disco ti è venuto in mente grazie a un sogno, vero?
Mentre scrivevo Change of the guard ho sognato una storia strana. C’è un uomo a guardia di un cancello in cima a una montagna. Ai piedi questa montagna c’è un villaggio, dove gli abitanti si allenano ogni giorno per cercare di sconfiggere il guardiano e prendere il suo posto. Quattro abitanti salgono sul monte e sfidano l’uomo, che vede in uno di loro qualcosa di speciale e decide di farsi battere. Dopo aver fatto questo sogno ho capito che tutte le canzoni avrebbero proseguito questa storia. Il guardiano è la persona che protegge la musica, ma le permette anche di andare avanti. Sto cercando di farci una graphic novel.

I tuoi concerti rievocano in parte l’epoca d’oro del jazz, quella di John Coltrane e Charlie Parker. Come fai a ottenere una reazione così forte dal pubblico?
È un onore essere accostato ai grandi del passato. L’importare è non cercare di suonare esattamente come John Coltrane o Charlie Parker, perché è impossibile riuscirci. Il motivo per cui Coltrane è riuscito a fare quello che ha fatto è che non ha dovuto perdere troppo tempo a capire dov’era arrivato prima di lui Coleman Hawkins. Non bisogna cercare d’imitare i grandi del passato, ma capirli a fondo, provando a portare avanti quello che hanno cominciato.

Ai tuoi concerti vengono tante persone che non hanno quasi mai ascoltato jazz. Ti fa piacere?
Noi creiamo continuamente steccati nella musica, parlando di generi ed etichette, ma non ha senso. Io ascolto volentieri punk o musica classica, hip hop o elettronica. Little Richard per me è jazz, James Brown è jazz. È divertente esibirsi di fronte a un pubblico di hipster sotto i trent’anni, è una bella sfida. La comunità jazz deve uscire dall’isolamento, deve scrollarsi di dosso l’etichetta di musica noiosa e intellettualoide. A Glastonbury o al Primavera sound i generi non sono divisi. Tutta la band di Snoop Dog, della quale facevo parte anche io, veniva dal jazz.


Hai sempre definito l’esperienza con Snoop Dog una delle più formative della tua carriera. Perché?
Snoop ascolta la musica in un modo molto dettagliato. Sta attento a come suoni qualcosa, non solo a cosa suoni. A lui interessano le note ma soprattutto il tono, il groove, il fraseggio. Se cominci ad ascoltare musica in quel modo cambi prospettiva. Questo ti fa capire perché la band di James Brown era così incredibile: suonava le stesse ritmiche e le stesse note senza perdere un colpo. Miles Davis e Charlie Parker facevano esattamente la stessa cosa, solo che usavano molte più note.

Com’eri da giovane quando studiavi sassofono? Avevi dei maestri cattivi e rigorosi, come il protagonista del film Whiplash?
Ad alcuni musicisti piace avere a che fare con i sergenti di ferro, che ti costringono a risuonare mille volte la stessa nota. È come entrare dentro un bosco e cercare di prendere tutte le foglie sugli alberi. Dopo un po’ diventerai bravissimo a raccogliere foglie, ma non non potrai mai prenderle tutte. Per me era diverso. Imparavo in fretta, ma non passavo mesi e mesi su una sola canzone. Non volevo capire una sola cosa, volevo capire tutto. E desideravo entrare in connessione totale con il sassofono.

Tu vieni da Los Angeles, una città che comunemente non viene associata al jazz.
A differenza di New York, le persone di solito non vengono a L.A. per fare i musicisti, ma per diventare attori o registi. Ma in realtà abbiamo avuto grandi band come la Pan Afrikan Peoples Arkestra, un progetto del pianista Horace Tapscott a Leimert park, il quartiere dove sono cresciuto, che univa musica e attivismo sociale. Horace apriva le porte a tutti, soprattutto alla gente dei quartieri popolari, e li faceva suonare nella sua orchestra. Anche mio padre Rickey è stato ed è ancora un grande musicista, anche se non è mai diventato famoso. Ora viene in tour con me.

Hai scritto Malcolm’s theme, una canzone dedicata a Malcolm X. Che rapporto c’è per te tra musica e politica?
La musica è una cosa molto potente, perché connette le persone. È uno strumento che può essere usato in molti modi, anche per cambiare la società. Per scrivere questo brano mi sono ispirato all’elogio funebre letto da Ossie Davis al funerale di Malcolm X. Quando ero bambino, sentivo che i giornali e le tv rappresentavano noi afroamericani in modo negativo: per loro eravamo tutti delinquenti, gangster, o prostitute. A sette anni non avevo mai fatto del male a nessuno e non capivo perché ero percepito come una carogna. Martin Luther King combatteva per cambiare le leggi, per far rispettare i diritti civili. Malcolm X lo faceva per cambiare l’idea che avevamo di noi stessi. King voleva sensibilizzare i nostri oppressori, Malcolm voleva rivoluzionare la mentalità degli oppressi. Ci ha mostrato chi erano davvero i cattivi e ci ha incoraggiato a difenderci, a sentirci forti e intelligenti.


Hai suonato in To pimp a butterfly di Kendrick Lamar. Che esperienza è stata?
Kendrick è un rapper di grande talento ed è mentalmente aperto. Mi ha lasciato libero di suonare come volevo. To pimp a butterfly lancia un messaggio molto simile a quello di Malcom X, è un disco che denuncia le ingiustizie nei confronti della comunità nera. Kendrick viene dal ghetto, ma è un genio. Negli Stati Uniti ci sono molte persone di talento come lui che non vengono notate per tanti motivi, uno su tutti le disuguaglianze nel sistema scolastico. Mio fratello è andato a scuola nel mio quartiere e per quattro anni non ha avuto neanche un libro. Io sono andato a scuola in un quartiere bianco e non mi bastava lo zaino per portare tutti i libri. Nonostante il passare degli anni, tante cose non sono ancora cambiate.

Cosa farai nei prossimi mesi? Hai in mente nuovi progetti?
Voglio fare un altro disco. A maggio abbiamo avuto una pausa e abbiamo cominciato a registrare dei nuovi brani a Los Angeles. A settembre, quando tornerò a casa, continuerò il lavoro, ma è presto per dire quando potrà uscire il mio secondo album.

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