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Cose che non dimenticherò della sera a Nizza durante la strage

Nizza, il 15 luglio 2016. (Giuseppe Cacace, Afp)

Eravamo a Nizza quando Mohamed Bouhlel ha travolto la folla sulla promenade des Anglais uccidendo più di ottanta persone. Avevamo trascorso la giornata con alcuni studenti della Summer school di Torino, a scrivere la sceneggiatura di un corto che avremmo girato e montato con loro. Si trattava di sfruttare al massimo un pugno di ore per contagiare con la passione per il cinema quindici ventenni iscritti a giurisprudenza e trasformarli in una troupe.

Avevamo aperto il seminario con Effetto notte di François Truffaut. Nessuno dei ragazzi lo aveva visto. Quando, a fine giornata, hanno cominciato a scherzare citando le battute del film, Angelo, il regista, mi ha guardato come a dire che ormai era fatta. Alle otto, con la sceneggiatura pronta, il casting concluso e il piano di lavoro abbozzato, ci siamo salutati dandoci appuntamento qualche ora dopo sulla promenade per vedere i fuochi del 14 luglio. Solo che abbiamo fatto tardi.

La mattina dopo, dal terrazzino della mia camera d’albergo al quarto piano, guardavamo la strada deserta contando le ambulanze che facevano lo slalom tra i lavori in corso per raggiungere l’ospedale. Aspettavamo l’arrivo del professore che aveva organizzato il seminario per sapere cosa ne sarebbe stato di noi e del nostro piccolo corso di cinema. Ogni tanto lanciavamo un occhio al cellulare che vibrava sul letto.

Siamo stati fortunati, stiamo bene. Non è così che stavamo rispondendo a tutti quelli che ci chiamavano o scrivevano?

C’era stata una finestra di tempo brevissima durante la notte in cui nessuno sapeva cosa fosse successo a Nizza. Avevamo fatto le scale di corsa, acceso la tv e cercato su tutti i canali e sui social una spiegazione per quello che ci era appena accaduto e per quello che, forse, stava ancora accadendo. Solo che non c’era.

In quella breve finestra di tempo in cui era possibile che avessimo sognato, abbiamo telefonato a casa per dire che eravamo in albergo e stavamo bene. I nostri genitori, spiazzati, hanno ricambiato la buonanotte poi hanno riattaccato. Dopo qualche minuto ci hanno richiamato, sconvolti.

Quella mattina, quando il professore è arrivato, gli abbiamo chiesto di nuovo se i ragazzi della Summer school stessero bene e mentre lui ci raccontava ancora della notte trascorsa per la città a cercare gli studenti nascosti negli androni dei palazzi, nelle case che avevano aperto le porte a chi fuggiva, ripetendo che erano tutti vivi, scossi ma vivi, io pensavo a quella seconda telefonata, al bisogno di sentirci dire per la seconda volta che stavamo bene, come se per le nostre madri il camion, l’attentato e il pericolo fossero arrivati davvero solo dopo, quando la televisione aveva annunciato il fatto.

Molte notizie e poche immagini

Alle due del 15 luglio, gli studenti di filosofia del diritto si sono ritrovati come tutti i pomeriggi in classe. Noi siamo passati tra i banchi a salutare i nostri, poi ci siamo rintanati in un angolo accanto alla finestra. Seduti, in piedi, le braccia incrociate, gli occhi al mare, ascoltavamo i loro racconti, sforzandoci di ignorare gli occhi rossi e i posti vuoti di chi era partito in mattinata. Alla prima occasione Angelo è uscito.

Non avevo guardato nessuno dei filmati che stavano spuntando in rete o in televisione; mi ero risparmiata le foto su social e giornali. La Francia mi stava aiutando: per pudore o per interesse sulla strage circolavano molte notizie e poche immagini. Neppure con Angelo ne avevamo parlato: ci giravamo intorno, commentavamo il passaggio di ambulanze e camionette, la domanda di questo o quel giornalista e ci chiedevamo come organizzarci per il resto del lavoro; oppure stavamo zitti e in quel silenzio non pensavamo ad altro.

Eppure di parlare avevamo bisogno. L’ho capito ascoltando chi ha avuto il coraggio di farlo davanti ai compagni, ai professori, a me, intrusa: si erano salvati grazie a qualcosa o qualcuno e adesso erano vivi e volevano sentirsi mentre lo dicevano. Raccontavano la fortuna, l’angoscia e il senso di colpa e io, intanto, li confrontavo con i miei. Quando gli studenti hanno finito, prima di prendere la parola, il professore mi ha guardato ma io non avevo nulla da dire.

Siamo stati fortunati, stiamo bene. Non è così che stavamo rispondendo a tutti quelli che ci chiamavano o scrivevano?

Eravamo al dolce quando la gente dall’altra parte ha iniziato a correre. Siamo rimasti seduti

Il professore ha fatto un discorso importante sul male e la giustizia; in un modo fermo e dolce s’è preso addosso tutto il dolore raccolto nell’aula, ha dimostrato che si poteva andare avanti portandolo in equilibrio sulle spalle. Gli abbiamo creduto: chi era incerto è rimasto; chi tra gli studenti aveva deciso di partire, qualche giorno dopo è ritornato. Avevamo di nuovo la nostra piccola troupe. In Effetto notte, il regista dice che la vita zoppica, rallenta, si interrompe, il cinema va avanti, come i treni nella notte.

La classifica impressa sul lato sinistro del petto:

Quelli che sono scappati.

Quelli che hanno visto il camion.

Quelli che hanno visto i morti.

Quelli che scappando hanno calpestato i bambini.

Quelli che sono stati sfiorati dal camion o dalle pallottole.

Quelli che sono morti.

Non ci ho pensato subito, ovviamente. Mi sono svegliata due notti dopo con il dolore al petto e la lista che mi schiacciava più o meno in quest’ordine.

Noi non ci siamo nell’elenco, comunque.

Stiamo bene, siamo stati fortunati.

Un incidente

Eravamo lì, a pochi metri dalla promenade, ma in un locale, un ristorante marocchino con una vetrata enorme che affaccia sulla strada. Eravamo al dolce quando la gente dall’altra parte ha iniziato a correre. Siamo rimasti seduti. Le ragazze hanno continuato a servire ai tavoli, ci hanno portato il caffè. Il proprietario del locale è uscito in strada. Dalla porta aperta entravano le grida in francese.

Fiori e candele per le vittime dell’attacco a Nizza sulla promenade des Anglais, il 20 luglio 2016.

Colpi da fuoco, ha tradotto Elisa, la moglie del professore. Hanno sparato.

Ci siamo alzati. Abbiamo guardato tutti la vetrata enorme, il fiume di gente che ci passava davanti di corsa. Incerto se abbassare la saracinesca, il proprietario del locale stava piantato in mezzo al marciapiede.

Andiamocene, ha detto Angelo.

Ma non ci siamo mossi. Non stava succedendo niente.

Il proprietario è tornato dentro, è uscito di nuovo. Allungava le braccia tentando di fermare qualcuno. Ci riusciva per qualche istante: li vedevamo muovere le labbra ma non li sentivamo. E comunque non avremmo capito.

Che stiamo aspettando? Ha chiesto Angelo. Nessuno ha risposto.

Dalla strada una donna incinta con un abito bianco si è lanciata in mezzo al locale, ha barcollato fino al bancone lamentandosi in francese. La moglie del proprietario l’ha abbracciata. Tutti abbiamo guardato Elisa.

È esploso un camion sulla gente.

Qualcosa è successo, allora, ho pensato. Un incidente.

Dalla spiaggia sono arrivati degli spari.

A noi toccano le cose dei vivi: i resoconti, il sollievo, il panico notturno, l’angoscia del mattino

Se rimaniamo qua ci ammazzano, ha detto Angelo così siamo usciti in mezzo alla folla, infilandoci tra il marciapiede e le macchine posteggiate. La gente non gridava più, scappava e basta e anche noi abbiamo affrettato il passo, zitti, Angelo avanti, io dietro, tranne quando incontravamo un ostacolo che restringeva il passaggio (un paraurti, un motorino parcheggiato male) e lui si fermava per farmi passare con un gesto del braccio non dissimile da quello cortese che gli hanno insegnato da piccolo e che adesso è parte di lui. Va tutto bene, mi diceva quel gesto. Non lo farebbe se avessimo davvero delle persone armate alle spalle. Era una corsa necessaria ma finta dunque, come gli applausi e le risate registrati nel film di Truffaut per essere usati dopo, nella scena del ballo. Scappavano tutti, scappavamo anche noi.
Il portiere ci ha visto entrare di corsa, noi per primi e dietro alcuni sconosciuti.

Ci ha chiesto cosa fosse successo.

Un incidente, gli ho detto. Lui ha alzato le spalle, ci ha chiesto se volevamo la colazione il giorno dopo.

Cose che ho infilato in valigia senza volerlo:

La giornalista televisiva che gesticola verso la regia. Rimandami il camion, dice. E Bouhlel, obbediente, ricomincia la strage.

La nuca del poliziotto di guardia all’angolo di una zona interdetta, che scompare mentre si gira, ci punta addosso il fucile, sorpreso.

Le chiazze scure sulla promenade.

Il vestito bianco della donna nel ristorante e la curva del pancione che lo riempiva davanti.

L’incubo di una notte in cui corro in una via casertana deserta, superando coppie di poliziotti armati che mi danno le spalle. Risate campionate in sottofondo.

Qualcosa è successo, pensavo, ma non a noi. C’era una classifica per il dolore, mi pareva, un diritto a esprimere sofferenza più o meno marcato a seconda della vicinanza al camion.

Noi due stiamo bene, siamo stati fortunati. Eravamo lì, ma non così lì da morirne.

A noi toccano le cose dei vivi: i resoconti, il sollievo, il panico notturno, l’angoscia del mattino, le telefonate e i messaggi. Il senso di colpa. Gli articoli di giornale, i dibattiti in tv. La resistenza al qualunquismo razzista all’esterno, la battaglia con i fantasmi dell’odio che ci ristagnano dentro. Il dispiacere stupito di essere dimenticati: l’amarezza di rendersi conto (di nuovo e ancora) che non è il cinema, è la vita degli altri a inghiottirti e travolgerti con una forza inarrestabile e ottusa che passa sopra ogni sciagura ti sia mai capitata, la rende una questione privata, passata, finita per tutti tranne che per te. E in ogni caso va meglio che ai morti che sono morti soli e che sono i primi a passare e finire mentre tutti, noi due compresi, andiamo avanti. Non abbiamo voglia di leggere, ma torneremo a leggere. Non dormiamo bene la notte ma torneremo a dormire.

Di colpo si è fatto novembre, Nizza è diventata Parigi

Adesso a una settimana di distanza, a chilometri di distanza, mi sembra di avere un’immagine più chiara di noi due su quel terrazzino mentre guardiamo Nizza che si sveglia con i morti sulla spiaggia. Il senso di colpa che da sempre mi accompagna mi fa alzare le spalle a ogni messaggio preoccupato che arriva. Stiamo bene, tranquilli. Abbiamo avuto paura, ma non ce n’era bisogno.

Non lo sapevamo, però, dice Angelo. Ha ragione. Noi abbiamo corso, qualcuno ha aperto la porta di casa agli sconosciuti in fuga, il professore ha rintracciato l’ultimo dei suoi alunni prima di tornare a casa. Una città intera ha fatto quello che poteva, senza sapere cosa stesse succedendo, correndo nella notte senza un binario da seguire.

Il cellulare vibra ancora, vibra sempre. Angelo me lo avvicina.

Ci pensi a tutti quelli che ci hanno scritto?

E tu ci pensi a tutti quelli che non l’hanno fatto?

Non siamo mai stati in pericolo, solo che non lo sapevamo.

La sera del 14 luglio 2016 a Nizza ci sono stati due attentati. Il primo, reale, ha fatto morti e feriti sulla promenade prima che l’assassino alla guida del camion venisse ammazzato dalla polizia. L’altro è cominciato subito dopo, quando il rumore degli spari ha sparpagliato la folla e l’ha inseguita per le strade. Di colpo si è fatto novembre, Nizza è diventata Parigi. Per un paio d’ore una squadra di terroristi invisibili ha percorso armata le vie del centro sulle tracce di chi scappava. Tutti i locali sono diventati il Bataclan, compreso il nostro. Restare nascosti o scappare fuori dipendeva solo da una decisione del momento, dalla necessità di seguire l’istinto o una riflessione razionale.

Nessun terrorista ci stava inseguendo ma non lo sapevamo. Correvamo senza girarci per paura di quello che avremmo visto.

A dispetto di tutto comunque ero sicura che non ci fosse pericolo per me. Non era possibile. C’era una barriera tra me e le altre persone, un confine inviolabile che mi separa da chi poteva morire ed è morto. Se in qualche momento questa barriera è crollata, di giorno in giorno non faccio che rimetterla a posto, pezzo per pezzo. Così da sopravvissuti torniamo a essere semplicemente vivi senza colpe o memoria. Gli altri muoiono per le bombe e gli attentati, io no. Io li guardo dal vetro di una finestra larga che dà sulla strada mentre scappano cercando di salvarsi.

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