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Storditi dal potere

Washington, 19 dicembre 2008. George W. Bush davanti a un suo ritratto. (Chip Somodevilla, Getty Images)

Questo articolo è stato pubblicato il 15 dicembre 2017 nel numero 1235 di Internazionale.

Se il potere fosse un farmaco, la sua confezione dovrebbe contenere una lunga lista di effetti collaterali. Può intossicare, può corrompere, può perfino spingere Henry Kissinger a credere di essere un grande seduttore. Ma può anche danneggiare il cervello? Nell’autunno del 2016, nel corso di un’audizione al congresso statunitense, diversi parlamentari si sono scagliati contro John Stumpf, l’ormai ex amministratore delegato della banca Wells Fargo, colpevole di non aver impedito a cinquemila suoi dipendenti di creare conti falsi per i clienti. Ognuno di loro sembrava avere un modo diverso per attaccarlo.

Ma sorprendeva di più l’atteggiamento di Stumpf: davanti ai parlamentari c’era un uomo arrivato ai vertici di una delle banche più importanti del mondo, ma incapace di cogliere l’atmosfera di quell’aula. Stumpf si era scusato, ma sembrava che non provasse nessuna vergogna o rimorso. Non appariva neanche spavaldo, arrogante o falso. Era disorientato, come se avesse viaggiato nello spazio e fosse appena atterrato lì da un altro pianeta, dove la deferenza nei suoi confronti era una legge di natura e cinquemila era un numero irrilevante. Neanche le frecciate più dirette sembravano risvegliarlo: “Mi sta prendendo in giro?”, gli ha detto Sean Duffy, deputato del Wisconsin. “Non credo alle mie orecchie”, ha commentato Gregory Meeks, deputato dello stato di New York.

Quando ha descritto il potere come “una sorta di tumore che finisce per uccidere la sensibilità della vittima”, lo storico Henry Adams parlava in senso metaforico, non medico. Ma la sua definizione non si allontana molto da quella a cui è arrivato dopo vent’anni di esperimenti Dacher Keltner, psicologo dell’università della California a Berkeley. Dai suoi studi è emerso che le persone sotto l’influsso del potere si comportano come se avessero subìto un trauma cerebrale: diventano più impulsive, meno consapevoli dei rischi e, soprattutto, meno capaci di vedere le cose dal punto di vista degli altri.

Processo neuronale

Di recente anche il neuroscienziato Sukhvinder Obhi della McMaster university, in Canada, ha descritto qualcosa di simile. A differenza di Keltner, che studia i comportamenti, Obhi si occupa di cervelli. E quando ha esaminato quelli di personaggi più o meno potenti con un apparecchio per la stimolazione magnetica transcranica, ha scoperto che in effetti il potere pregiudica uno specifico processo neuronale, il mirroring, o rispecchiamento, probabilmente uno dei fondamenti dell’empatia.

In questo modo ha fornito una base neurologica a quello che Keltner chiama il “paradosso del potere”: una volta che lo abbiamo, perdiamo alcune delle capacità che servono per conquistarlo. Questa perdita è stata dimostrata in vari modi, anche fantasiosi. In uno studio del 2006 è stato chiesto ai partecipanti di disegnarsi sulla fronte una lettera E, in modo che tutti potessero leggerla, un esercizio che richiede la capacità di vedersi con gli occhi di un osservatore. Le persone che si sentivano potenti avevano il triplo di probabilità di disegnarla nel verso giusto rispetto a se stessi, ma al contrario rispetto agli altri.

Altri esperimenti hanno dimostrato che i potenti hanno più difficoltà a cogliere l’espressione di una persona ritratta in una fotografia o a capire come un collega può interpretare un loro commento. Il fatto che le persone tendono a imitare le espressioni e il linguaggio del corpo dei loro superiori può aggravare il problema. I subordinati forniscono poche indicazioni affidabili ai potenti. Ma la cosa più importante, dice Keltner, è che i potenti stessi smettono di imitare gli altri. Ridere quando ridono gli altri non serve solo a ingraziarceli, contribuisce a innescare in noi gli stessi sentimenti. I potenti “smettono di simulare le esperienze altrui”, dice Keltner, e questo determina un “deficit di empatia”.

Il mirroring è un tipo d’imitazione più sottile che avviene esclusivamente nella nostra testa e di cui non siamo consapevoli. Quando guardiamo qualcuno compiere un’azione, la parte del cervello che useremmo per fare la stessa cosa si attiva per simpatia. Potremo definirla un’esperienza vicaria, ed è quella che Obhi e la sua équipe hanno cercato di innescare, chiedendo ai volontari dei loro esperimenti di guardare il filmato di una mano che stringeva una pallina di gomma.

Nei volontari che non si sentono potenti, il mirroring funzionava perfettamente, e i percorsi neuronali che avrebbero usato per stringere una pallina si attivavano immediatamente. Nei potenti questo succedeva di meno. Il mirroring si era inceppato? No, probabilmente era solo anestetizzato. Nessuno dei partecipanti ricopriva un ruolo di potere in modo permanente. Erano studenti universitari che erano stati “indotti” a sentirsi importanti chiedendogli di raccontare un’esperienza in cui si erano assunti delle responsabilità. L’effetto anestetico sarebbe probabilmente scomparso insieme a quella sensazione, un pomeriggio in laboratorio non avrebbe danneggiato strutturalmente il loro cervello.

Ma se l’effetto fosse durato più a lungo, per esempio se gli analisti di Wall street si fossero sentiti ripetere quant’erano bravi trimestre dopo trimestre, se gli avessero offerto continui aumenti di stipendio, e la rivista Forbes li avesse elogiati perché “guadagnavano bene e facevano guadagnare gli altri”, nel loro cervello sarebbe potuto avvenire quello che la medicina chiama un “cambiamento funzionale”.

Mi sono chiesto se i potenti decidono semplicemente di non mettersi più nei panni degli altri, senza perdere la capacità di farlo. Obhi ha condotto un altro esperimento che potrebbe rispondere a questa domanda. Ha spiegato ai volontari cos’è il mirroring e gli ha chiesto di sforzarsi di controllare le loro reazioni. “Il risultato non è stato molto diverso”, ha scritto insieme alla collega Katherine Naish. Sforzarsi non è servito a niente.

Informazioni periferiche

È una scoperta deprimente. Si presume che il sapere sia potere. Ma a cosa serve sapere che il potere ci priva della comprensione? La cosa più consolante, comunque, è che questi cambiamenti non sempre sono dannosi. Il potere, dicono i ricercatori, spinge il nostro cervello a ignorare le informazioni marginali. Nella maggior parte delle situazioni, questo contribuisce a renderci più efficienti. Nelle relazioni sociali, però, ha l’effetto collaterale di renderci più ottusi. Ma anche questa non è necessariamente una cosa negativa per i potenti.

Come sostiene Susan Fiske, una docente di psicologia di Princeton, negli Stati Uniti, il potere riduce la necessità di vedere gli altri in tutte le loro sfumature, perché ci dà il controllo delle risorse che prima dovevamo convincerli a darci. Ma la possibilità di mantenere quel controllo dipende da un certo livello di sostegno dell’organizzazione che guidiamo. E i casi di manager arroganti che finiscono sulle prime pagine dei giornali fanno pensare che molti di loro sconfinano in una follia controproducente.

Dato che sono meno capaci di individuare i tratti caratteristici degli altri, i potenti si affidano agli stereotipi. E meno riescono a vedere, più confidano nella loro “visione” personale. Stumpf vedeva che i suoi clienti della Wells Fargo avevano otto conti separati e gli sembrava un’ottima cosa. “Vendere più prodotti”, ha dichiarato al congresso, “significa rafforzare i rapporti”. Si può fare qualcosa? Sì e no. È difficile arginare l’influenza che il potere ha sul nostro cervello. È più facile, almeno ogni tanto, smettere di sentirsi potenti.

Nella misura in cui influisce sul nostro modo di pensare, mi ha ricordato Keltner, il potere non è tanto legato alla posizione che occupiamo, quanto a uno stato mentale. I suoi esperimenti fanno pensare che sia sufficiente raccontare una situazione in cui non ci si è sentiti potenti, per riportare il cervello a contatto con la realtà. Secondo un incredibile studio pubblicato nel febbraio del 2017 sul Journal of Finance, i manager sopravvissuti a una catastrofe naturale che ha prodotto molte vittime tendono a rischiare meno.

L’unico problema, dice Raghavendra Rau, professore dell’università di Cambridge, nel Regno Unito, e uno degli autori dello studio, è che invece i manager sopravvissuti a una catastrofe naturale senza un numero significativo di vittime rischiano di più. Ma i tornado, le eruzioni dei vulcani e gli tsunami non sono le uniche cose che frenano l’arroganza.

Indra Nooyi, amministratrice delegata e presidente della Pepsi, racconta spesso di quando, nel 2001, le annunciarono che era entrata a far parte del consiglio d’amministrazione dell’azienda. Quel giorno tornò a casa crogiolandosi nel suo senso di importanza e nel suo dinamismo, ma sua madre le chiese se, prima di darle la “grande notizia”, poteva fare un salto a comprare il latte. Furiosa per la richiesta, Nooyi andò a comprarlo. “Lascia quella dannata corona in garage”, le disse la madre al ritorno. La cosa importante di questa storia è che Nooyi la racconta. Serve a ricordarci che abbiamo degli obblighi quotidiani e dobbiamo restare ancorati alla realtà.

L’atteggiamento della madre di Nooyi servì a riportarla “con i piedi per terra”, come diceva Louis Howe, il consigliere politico del presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt. Per lo stesso motivo Howe si ostinava a chiamare il presidente con il nome di battesimo. Nel caso di Winston Churchill la persona che svolgeva quel ruolo era la moglie Clementine, che una volta gli scrisse: “Mio caro Winston, devo confessare di aver notato un peggioramento dei tuoi modi, non sei più gentile come una volta”. Questo messaggio, scritto il giorno in cui Hitler entrava a Parigi, non era una lamentela ma un avvertimento.

Qualcuno le aveva confidato che durante le riunioni Churchill si stava comportando in modo “così sprezzante” nei confronti dei suoi sottoposti che “non ne sarebbe mai uscita nessuna idea, né buona né cattiva”. David Owen, un neurologo britannico che è stato parlamentare e ministro degli esteri, racconta sia la storia di Howe sia quella di Clementine Churchill in un saggio del 2008, in cui parla delle malattie che hanno influito sui comportamenti dei primi ministri britannici e dei presidenti statunitensi a partire dal 1900.

Mentre alcuni avevano avuto un ictus (Woodrow Wilson), facevano abuso di droghe (Anthony Eden) o forse soffrivano di disturbo bipolare (Lyndon B. Johnson e Theodore Roosevelt), almeno altri quattro avevano una malattia che la letteratura medica non riconosce, anche se secondo Owen dovrebbe farlo: la “sindrome dell’arroganza”, come l’hanno definita lui e il collega Jonathan Davidson in un articolo del 2009 pubblicato sulla rivista Brain.

“È una malattia associata al potere, e in particolare al potere dovuto a un eccessivo successo, mantenuto per anni e con pochissime limitazioni”. I suoi 14 sintomi clinici comprendono un palese disprezzo per gli altri, la perdita di contatto con la realtà, un comportamento febbrile o imprudente e continue dimostrazioni d’incompetenza.

A maggio la Royal society of medicine britannica ha ospitato una conferenza in collaborazione con il Daedalus trust, l’organizzazione fondata da Owen per lo studio e la prevenzione dell’arroganza. Ho chiesto a Owen, il quale ammette di avere lui stesso una buona predisposizione all’arroganza, se c’è qualcosa che lo tiene ancorato alla realtà, qualche strategia che le persone di potere potrebbero adottare, e me ne ha rivelate alcune: ripensare a episodi del passato che le smontano, guardare documentari sulla gente comune, prendere l’abitudine di leggere le lettere degli elettori.

Presumevo che il modo migliore per tenere a bada la sua arroganza fossero proprio le ricerche che stava conducendo. Eppure le grandi aziende non hanno mostrato quasi nessun interesse per quegli studi. E lo stesso vale anche per le facoltà universitarie che preparano i manager. Il sottofondo di frustrazione che ho sentito nella sua voce rivelava il suo senso d’impotenza. Anche se le ricerche di Owen hanno avuto un effetto salutare su di lui, non credo che troveremo presto la cura per una malattia fin troppo comune nei consigli d’amministrazione e negli uffici di chi comanda.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato il 15 dicembre 2017 nel numero 1235 di Internazionale.

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