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Un pacifista intransigente

Illustrazione di Ale + Ale per Internazionale

Questo è il primo di una serie di articoli di John Foot pubblicati da Internazionale e dedicati ad antifascisti italiani prima e dopo la marcia su Roma di Mussolini del 28 ottobre 1922. Questo articolo è uscito sul numero 1342 di Internazionale.

Oh che schifo, che umiliazione, che desolazione di vivere in un momento così torbido della storia del nostro povero paese! Non ti nascondo anche una certa inquietudine, perché c’è sempre da temere la spedizione punitiva, se, come dice qualche giornale, il solo grido di Modigliani a momenti vi procura un’invasione dei fascisti.
Anna Kuliscioff

Lo chiamavano Menè. Il suo aspetto era inconfondibile: aveva la barba lunga (“la barba del profeta”) e quasi completamente bianca. Era ebreo, veniva dalla città portuale di Livorno e di mestiere, come tanti intellettuali socialisti del tempo, faceva l’avvocato. Riformista e grande oratore (aveva, scrisse Gaeta­no Arfé, “una voce tenorile”), deputato dal 1913, Giuseppe Emanuele Modigliani veniva da una famiglia in vista della città, il pittore Amedeo era suo fratello. Arrestato più volte, Menè era idolatrato dalla base operaia, ma rimase per lo più estraneo alle dispute ideologiche nel Partito socialista prima e dopo la grande guerra.

Pacifista, nel 1915 si oppose all’intervento dell’Italia in guerra, il che lo espose all’odio e fece di lui un predestinato alle violenze. Nel 1917, in un ristorante di Roma, due uomini lo riconobbero ed esclamarono: “Cacciatelo fuori dal locale, non è degno di frequentarlo”. Scoppiò una rissa durante la quale il deputato socialista affermò di essere stato afferrato per la barba. Modigliani fu aggredito o minacciato in molte occasioni e spesso l’oggetto delle minacce era proprio la sua barba, vista come un trofeo, un simbolo della sua forza e virilità. Ma la barba era importante anche per i suoi sostenitori: dicevano che somigliava “a un sacerdote dell’Aida, per via del grande e ieratico barbone sempre agitato e sempre accarezzato”, scriveva l’Avanti! nel 1914.

Nel luglio del 1920, a Roma, Modigliani fu aggredito a bastonate e i medici dovettero mettergli quattro punti di sutura a una ferita.

Il suo compagno socialista Nullo Baldini, che aveva assistito all’aggressione, riferì in parlamento: “Vidi staccarsi dal gruppo dei dimostranti un giovane vestito di nero e con un bastone colpire violentemente alla fronte il nostro compagno Modigliani. Ero alla distanza di dieci o dodici passi, ma sentii il colpo secco ed ebbi l’impressione che potesse essere fatale”.

Il nostro errore fu quello di non credere al fascismo nel suo sorgere, poiché avremmo potuto annientarlo

Nel maggio del 1921 Modigliani fu nuovamente aggredito a bordo di un treno in servizio da Pisa a Viareggio. In quell’occasione, ricorda il giornalista e scrittore livornese Aldo Santini, “Menè ci rimise un ginocchio e qualche ciuffo di peli. Il treno fu bloccato a lungo. I fascisti urlavano che ne avrebbero consentito la partenza solo se il deputato si fosse affacciato al finestrino gridando ‘Viva l’Italia’. Invano funzionari e agenti lo pregarono di aderire alla richiesta. Modigliani, calmo, rispose: ‘Sotto minaccia non griderei nemmeno ‘Viva il socialismo’”.

Nel febbraio del 1923 Modigliani fu aggredito un’altra volta a Livorno durante un processo “da un gruppo di fascisti i quali lo avrebbero afferrato per la barba e lo avrebbero malmenato”, riferì un articolo del Corriere della Sera. Si disse che nell’aggressione fossero coinvolte fino a trecento persone, e Modigliani fu cacciato dalla città. Ancora una volta il bersaglio era la sua barba: “Una mano, afferrata la prolissa barba dell’onorevole Modigliani, ne avrebbe strappato un ciuffo e un’altra, imbrattata di conserva di pomodoro, insudiciò il volto del deputato”. Modigliani fu picchiato di nuovo a Napoli nel luglio del 1926 e in seguito la sua casa di Roma fu saccheggiata da una squadra di fascisti.

Gli fu tolto il passaporto e fu espulso dall’ordine degli avvocati, ma Modigliani non volle mai scendere a compromessi o nascondersi. Lui e sua moglie Vera furono però costretti ad andare in esilio, prima a Vienna e poi a Parigi. Da lì Modigliani proseguì la sua militanza in favore degli operai, degli oppressi e contro il regime di Mussolini. Nel 1928, a Lille, dichiarò: “Il nostro errore fu quello di non credere al fascismo nel suo sorgere, poiché avremmo potuto annientarlo. La via per batterlo è ora più lunga e più difficile, ma la vittoria non mancherà”.

A Parigi, Modigliani conobbe il rivoluzionario e scrittore russo Victor Serge, che nelle sue Memorie di un rivoluzionario lo definisce “un vecchio riformista onesto dall’intelletto acuto”. Serge descrive così Modigliani: “Robusto, con una barba notevole, modi assai nobili, occhi azzurri vigili e tristi, un eloquio misurato, sempre riflessivo e carico di esperienza”. Nel suo esilio parigino, Modigliani proseguì la sua attività unendosi alla comunità di esuli anti­fascisti italiani. Fu testimone al matrimonio tra Gioconda Salvadori, più nota come Joyce, ed Emilio Lussu, dove “con la grande e ampia barba sembrava il gran rabbino nella sinagoga”, racconta Manlio Brigaglia nella sua introduzione alle opere di Emilio Lussu.

Ma a un certo punto i nazisti invasero anche la Francia e Modigliani dovette fuggire di nuovo, stavolta oltrepassando le montagne diretto in Svizzera. A Parigi, Modigliani aveva conosciuto il giornalista statunitense Varian Fry, che aiutò molti ebrei e altri perseguitati a fuggire dalla Francia di Vichy (secondo alcune fonti soccorse circa quattromila persone). Sembra che Fry abbia svolto un ruolo centrale nella fuga di Modigliani in Svizzera. I due litigarono sull’uso di documenti falsi e travestimenti: come scrive Fry nel suo Surrender on demand, una cronaca di quegli anni, Modigliani “voleva lasciare la Francia, ma rifiutava di fare qualsiasi cosa che fosse illegale”. Nel libro è descritta anche una scena tra Menè e sua moglie Vera:

“Se solo si radesse la barba e si togliesse di dosso la pelliccia”, sospirò Vera, “potrebbe passarla liscia come gli altri. Ma ogni volta che glielo dico si mette a gridare: ‘Radermi? Ma figurati! No, mia cara, ho sempre portato la barba e sempre la porterò’”.

Una barba profetica
Joyce Lussu aiutò i due a fuggire e narrò la drammatica fuga nei suoi diari, pubblicati successivamente con il titolo Fronti e frontiere. Scrive Joyce Lussu che nel 1940, con l’invasione e la resa della Francia, “in tutto il paese arrestavano gli antifascisti italiani per consegnarli ai tedeschi o all’Ovra (la polizia segreta del regime italiano). Il genero di Nenni era stato fucilato dai tedeschi e la figlia deportata ad Auschwitz. Modigliani, che era anche ebreo, era in grave pericolo. ‘Bisogna salvarlo’, diceva Emilio Lussu. Gli avevamo già proposto una volta di mettersi in salvo, ma aveva una ripugnanza insormontabile per i mezzi illegali e le carte false. Decidemmo di provarci ancora”.

Joyce Lussu aveva incontrato Emanuele e Vera nelle campagne della Garonna, una regione della Francia meridionale. I due erano disposti a correre il rischio del passaggio in Svizzera. La prima parte del viaggio l’avrebbero fatta in treno, poi avrebbero usato dei taxi e l’ultimo tratto l’avrebbero percorso a piedi. Nel corso del lungo e complicato viaggio furono fermati varie volte, ci furono molti momenti di disperazione e di paura. La barba di Modigliani e il suo aspetto caratteristico ponevano un serio problema ogni volta che usciva di casa. Come scrive Joyce Lussu, “la difficoltà era far passeggiare Modigliani e la sua profetica barba per le vie”. Dopo un arresto, Modigliani perse la pazienza e dichiarò chi era: “Ecco le mie vere generalità: avvocato Emanuele Modigliani, deputato al parlamento italiano per nove legislature”. Era pronto a consegnarsi: “Arrestatemi pure, sono preparato da tempo”.

Joyce Lussu racconta che il corpo stesso di Modigliani testimoniava la sua importanza: “‘Guardatelo!’, diceva la signora Vera, come se l’aspetto del marito fosse un argomento irresistibile. E aveva infatti una testa venerabile, con quella fronte spaziosa e quella barba candida. ‘Vedete cosa gli han fatto i fascisti?’, diceva mostrando sul capo una lunga cicatrice, testimone di un’antica ferita”. Alla fine, Joyce Lussu sacrificò la propria libertà per salvare i Modigliani, che attraversarono il confine svizzero a piedi tenendosi per mano.

Modigliani rivide finalmente l’Italia nell’ottobre del 1944, quando un aereo lo riportò in patria insieme a Vera e allo scrittore Ignazio Silone. All’atterraggio, a Napoli, Modigliani toccò il suolo italiano e poi si chinò a baciarlo. Silone raccontò che Modigliani, “con la sua barba imponente che ricordava quella di un profeta dell’antico testamento”, si era seduto sul bordo della strada per riposarsi, quando una passante lo riconobbe e “gli s’inginocchiò davanti”. Secondo Silone, “non avevamo compreso appieno il significato di ciò che stava accadendo. In quel vecchio dalla grande barba, la donna aveva visto il padreterno sconfitto, umiliato, privato della sua potenza”.

Ma ormai Modigliani era anziano e infermo: ebbe appena il tempo di prendere parte ai lavori dell’assemblea costituente prima di morire nel 1947. È sepolto accanto alla moglie Vera nel grande cimitero romano del Verano.

(Traduzione di Marina Astrologo)

Questo è il primo di una serie di articoli di John Foot pubblicati da Internazionale e dedicati ad antifascisti italiani prima e dopo la marcia su Roma di Mussolini del 28 ottobre 1922. Questo articolo è uscito sul numero 1342 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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