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In Libia aumentano le sparizioni di chi sostiene il pensiero laico

Il dibattito al Coffee & Book Café di Tripoli dove è stato visto per l’ultima volta Jabir Zain. (Facebook)

Secondo Ernest Hemingway, “se un prosatore conosce abbastanza quello di cui sta scrivendo può omettere le cose che conosce. La dignità del movimento di un iceberg è dovuta al fatto che soltanto un ottavo di esso emerge dall’acqua”. La cosa bella di quando scrivi di Tripoli è che puoi scrivere quanto vuoi e mantenere fede a queste parole: perfino un nono dell’iceberg basta a metterti in guai seri in un paese dove la spada è più potente delle parole.

Il giornalista e attivista Abdul Wahab Elalem è stato rilasciato una settimana dopo il suo rapimento. I suoi articoli erano soprattutto interviste e cronache di alcuni eventi. Il suo lavoro non era controverso né critico nei confronti della società come quello di Jabir Zain. Jabir, un blogger e attivista, è sparito il 25 settembre. L’ultima volta che è stato visto, partecipava a un dibattito sui diritti e i ruoli delle donne nella società al Coffee & Book Café, uno dei tanti incontri organizzati da attivisti su argomenti di questo tipo.

I familiari di Jabir hanno dichiarato di sapere quale milizia l’ha preso, ma i rapitori li avevano avvertiti di non parlarne con i mezzi d’informazione. Le pressioni esercitate sulle famiglie sono la causa dell’assenza di notizie sui rapimenti.

Un denominatore comune
Un amico mi ha detto che questi rapimenti non sono casuali: prendono sistematicamente di mira persone accusate di diffondere il laicismo e di criticare l’islam, e quelle che hanno adottato il punto di vista di Sadeq Naihoum. Ho sentito molte di storie simili che suggeriscono la stessa cosa. È difficile identificare un denominatore comune a causa della quantità di rapimenti apparentemente privi di collegamento tra loro a Tripoli: giovani e adulti, ragazze e ragazzi, artisti e direttori di banca.

A pensarci bene, forse questo è il collegamento tra tutti gli scrittori che sono stati aggrediti di recente: tutti a un certo punto hanno citato Naihoum.

Sadeq Al Naihoum, giornalista e scrittore libico, era nato a Bengasi, dove ha vissuto e studiato, e tra il 1958 e il 1959 ha pubblicato articoli nel Journal of Benghazi. Nel 1961 si era laureato in letteratura. Si era trasferito al Cairo, poi in Germania, dove aveva conseguito un dottorato in religione comparata. Per due anni si era trasferito in Arizona e poi a Helsinki, dove ha vissuto e lavorato dal 1968 al 1972. È morto a Ginevra il 15 novembre 1994.

Sono riflessi primari casuali rivolti contro chiunque o qualunque cosa possa rappresentare un tentativo di pensare fuori degli schemi

Gli articoli e i libri di Naihoum hanno provocato grandi dibattiti. La sua critica alla società libica e a quelle arabe e la sua tendenza a sfidare e deridere gli studiosi musulmani gli hanno attirato numerose accuse. Sosteneva la differenza tra l’islam e le sue attuali interpretazioni, mere istituzioni create dall’uomo per determinati scopi. Si scagliava contro il monopolio esercitato sull’islam dalle élite religiose, il mescolarsi di tradizioni e culture con la religione e la riduzione dell’islam a un insieme di riti e pratiche che i musulmani dovevano eseguire senza porsi domande.

Sfidava l’autorità assoluta delle figure religiose nelle società arabe: “Se le circostanze inducessero e costringessero i cittadini ad abbandonare il dovere di perseguire la conoscenza, e la nostra cultura islamica riuscisse a renderli per sempre ignoranti riguardo a ciò che è l’islam, questo sarebbe un successo politico. Porterebbe al reclutamento di milioni di musulmani che sono pronti a morire per difendere chiunque o qualunque cosa, tranne il diritto alla vita dei musulmani”.

Jabir Zain (a destra).

E forse tanti anni fa aveva previsto il nostro futuro quando scriveva quella che secondo me è la definizione più precisa della Libia: “La Libia è un paese costituito da pagliuzze che galleggiano su laghi di petrolio: è molto facile farvi divampare un incendio e farlo bruciare fino all’annientamento”.

Non posso definire i rapimenti a Tripoli “sistematici” senza fare alcune precisazioni. Si tratta di qualcosa di più simile a riflessi primari casuali rivolti contro chiunque o qualunque cosa possa rappresentare un tentativo di pensare fuori degli schemi. Entrano in confusione quando qualcuno non gioca seguendo la regola d’oro ispirata a un vecchio modo di dire libico: affama il cane e il cane ti seguirà.

Le mie parole sembrano insufficienti a descrivere la situazione, soprattutto quando si parla del rapimento di un altro giovane libico, Mohaamed bin Taher, liberato il 12 novembre dopo una settimana di detenzione. Non è uno scrittore; la sua unica colpa è quella di amare talmente tanto gli anime e i fumetti da partecipare al comicon di Tripoli quest’anno, una volta travestito da One Punch Man e l’altra da Avatar – il personaggio anime e non quello del noiosissimo film. Le sue foto sono circolate moltissimo tra gli appassionati libici di anime. Lo hanno preso di mattina presto, mentre andava all’università. Lo hanno accusato di inneggiare al buddismo!

È una battuta troppo triste e amara, ma è difficile non riderne. La situazione complessiva a Tripoli è un po’ così, un film stupido che ti fa ridere non perché le battute sono intelligenti, ma perché in realtà non dovrebbe essere una commedia, un film di una tale terribile perfezione da essere quasi buono, un capolavoro scadente degno della firma di Ed Wood.

Forse è la caccia alle streghe di per sé la ragione principale, e le motivazioni sottostanti sono giustificazioni per continuare a praticarla. Non posso fare a meno di pensare che sia così, a volte. Per citare ancora Ernest Hemingway. “Certamente nessuna caccia è paragonabile alla caccia all’uomo e chi abbia cacciato uomini armati abbastanza a lungo e con piacere, dopo non si è mai interessato di null’altro”.

L’unica differenza è che questi rapimenti prendono di mira gente innocua e disarmata. O forse è proprio vero che “la penna è più potente della spada”?

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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