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I sogni della primavera araba sono infranti, ma la rabbia è intatta

I festeggiamenti dopo l’annuncio della caduta del regime di Hosni Mubarak a piazza Tahrir, Il Cairo, Egitto, l’11 febbraio 2011. (Tara Todras-Whitehill, Ap/Lapresse)

Dieci anni fa, il 17 dicembre 2010, il giovane fruttivendolo Mohamed Bouazizi, di 26 anni, si dava fuoco davanti alla sede del governo provinciale della sua città in Tunisia, per protestare contro i vigili che gli avevano sequestrato il carretto con i suoi prodotti.

L’azione sconvolgente di Bouazizi generò un effetto a catena nel suo paese, dove centinaia di migliaia di persone a loro volta umiliate da uno stato atrofizzato e dai suoi funzionari trovarono il coraggio di far sentire le loro voci.

Nei diciotto giorni trascorsi tra l’immolazione di Bouazizi il 17 dicembre 2010 e la sua morte il 4 gennaio 2011, in Tunisia esplose la più drammatica insurrezione degli ultimi decenni, mettendo in ginocchio il governo del dittatore Zine al Abidine Ben Ali, costretto a lasciare il potere il 14 gennaio 2011.

Di lì a poco si sarebbero scatenati eventi di portata ancora maggiore: le vicende in corso nel piccolo paese affacciato sul Mediterraneo diedero il via a rivolte in tutto il Nordafrica e il Medio Oriente, dove la morte solitaria di un venditore ambulante esasperato era diventata il simbolo di una rabbia collettiva che ha poi definito un’epoca.

Tutto è possibile
Ben presto le proteste diventarono delle rivoluzioni attive negli stati di polizia della regione. In Egitto, Bahrein, Yemen, Libia e Siria, dittature che i loro cittadini sofferenti ritenevano inespugnabili apparvero all’improvviso vulnerabili. La storia di Bouazizi, che guadagnava poco più di due euro al giorno per sfamare una famiglia di otto persone ed era stato schiacciato da funzionari sprezzanti, ebbe un’ampia risonanza. In mezzo a incredibili scene di proteste di massa animate da un autentico slancio, l’autodeterminazione non sembrava più fuori portata. Prendere parte al processo, a prescindere da quanto difficile o sanguinoso potesse essere, sembrava dopo tutto possibile.

Il movimento, che presto sarebbe diventato noto come primavera araba, è stato uno shock straordinario, ha messo fine a decenni di torpore e ha mostrato il potere di una piazza in fiamme giudicata incapace di intaccare dinastie feudali e stati potenti abituati a trattare i cittadini come sudditi e a frustrare le loro aspirazioni.

Le insurrezioni sono state favorite dalla possibilità per le persone di organizzarsi rapidamente, spesso attraverso gli smartphone e applicazioni web di facile accesso, che hanno sconfitto senza troppi problemi gli apparati di sicurezza dello stato. Le sfide erano particolarmente imponenti per regimi postcoloniali come quelli in Egitto, in Libia e più tardi in Siria, dove il potere si era consolidato nel corso dei decenni poggiando su impalcature ereditate dai regimi coloniali europei e rimaste sorde ai cambiamenti demografici.

Una patina istituzionale e la presenza di una costituzione mascheravano il vero detentore del potere: una famiglia, un partito o un esercito

Nel 2010 una convergenza di circostanze aveva reso più difficile mantenere quello status quo. Divari sempre più ampi nelle condizioni di vita, un’élite che sfuggiva sempre di più alla responsabilità delle sue azioni, una gioventù irrequieta in rapida crescita e priva di opportunità e autorità sorde alle proteste: per tutte queste ragioni in molti si erano convinti di non avere più niente da perdere protestando.

“Quei sistemi erano programmati per governare su uno specifico assetto demografico e non erano adatti a tenere il passo dei cambiamenti”, spiega H.A. Hellyer, ricercatore del centro studi Royal united services institute. “Nel 2010, già da anni erano in bilico, nel tentativo da un lato di tenere il passo dei cambiamenti nella popolazione e dall’altro di assicurare che la distribuzione della ricchezza restasse limitata ai vertici. Aggiungete l’onnipresente patto autocratico – ‘Non chiedete libertà politiche perché siamo noi a proteggervi dal terrorismo’ – ed ecco la ricetta per il disastro perfetto”.

Alla metà di gennaio del 2011 il leader tunisino Ben Ali fu costretto all’esilio in Arabia Saudita e le piazze dell’Egitto stavano per esplodere in una rivoluzione che avrebbe rovesciato Hosni Mubarak, autocrate del paese da quarant’anni. Anche la Libia, dove Muammar Gheddafi aveva governato spietatamente per quarant’anni, cominciava a vacillare, così come la Siria, dove Hafez al Assad aveva lasciato in eredità lo stato di polizia più duro della regione al figlio Bashar al Assad, che si è trovato a fronteggiare una minaccia concreta al dominio dinastico della sua famiglia.

In tutti e quattro i regimi, una patina istituzionale e la presenza di una costituzione mascheravano il vero detentore del potere: una famiglia, un partito o un esercito. Mentre questi barcollavano, gli allarmi suonavano anche in Arabia Saudita e in Iran, che temevano si potesse scatenare anche il potere delle rispettive popolazioni, nel caso di Teheran per la seconda volta in meno di due anni.

Nuove repressioni
Nancy Okail, studiosa egiziana attiva nel settore umanitario, stava completando il suo dottorato all’università del Sussex quando il 25 gennaio 2011 le immagini di centinaia di migliaia di manifestanti scesi in piazza Tahrir, al Cairo, cominciarono a rimbalzare sugli schermi di tutto il mondo. “Mia sorella era venuta a trovarmi. Io le dissi che l’indomani ci sarebbe stata una rivoluzione in Egitto. Lei era scettica, ma avevo ragione io”.

Nel giro di poche settimane il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ritirò il suo appoggio a Hosni Mubarak, recidendo un’ancora di salvezza vitale per il presidente egiziano e schierandosi con chiarezza dalla parte di chi manifestava per rovesciarlo. Mubarak cadde e la piazza egiziana era euforica, e il suo impatto si fece sentire anche altrove. In Siria e in Libia il sostegno statunitense ai manifestanti fu interpretato come un segnale del fatto che anche le loro rivolte avrebbero avuto lo stesso sostegno. Nel giro di poche settimane la rivolta in Libia si trasformò in una guerra aperta in cui gli stati arabi si schierarono a favore di un intervento militare a sostegno dei ribelli contro Gheddafi, guidato dalla Francia, dal Regno Unito e dalla Danimarca e sottoscritto da Washington.

Verso la fine di quello stesso anno anche la Siria precipitò nella guerra. L’esercito di Assad attaccava i manifestanti e le forze dell’opposizione cominciavano a fare quadrato contro di lui. In un’intervista a un’emittente russa nel 2012 Assad ammoniva: “Il costo di una possibile invasione straniera della Siria sarebbe più alto di quello che il mondo intero potrebbe tollerare”, aggiungendo che le conseguenze del rovesciamento del suo regime si sarebbero fatte sentire “dall’Atlantico al Pacifico”.

Otto anni dopo Assad è ancora formalmente al potere. La Russia, l’Iran e la Turchia hanno avuto il loro ruolo in un conflitto che da allora ha distrutto gran parte del paese e ha costretto metà della popolazione a fuggire all’estero o in altre aree interne. Anche l’Egitto ha attraversato un periodo di caos che ha visto la fine di Mubarak, sostituito dal breve e disastroso governo del presidente islamista Mohamed Morsi, rovesciato a sua volta da un colpo di stato militare guidato da Abdel Fattah al Sisi, che ha imposto di nuovo l’autorità degli apparati di sicurezza egiziani e ha soffocato la società civile.

Sia in Siria sia in Egitto il dissenso fiorito nei primi mesi delle rivolte è stato regolarmente represso e oggi il numero di detenuti politici nelle prigioni di entrambi i paesi è molto più alto rispetto al 2011. Le organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno definito le condizioni nei due paesi intollerabili e hanno condannato il numero crescente di detenuti politici, spesso catturati per ragioni pretestuose e spariti per anni.

A rotoli
“Abbiamo cominciato a vedere i segnali già alla fine del 2011”, afferma Okail. “Per me il più importante è stato il fatto che l’esercito continuava a gestire le cose. Fin dai primi giorni, quando i carri armati sono arrivati in piazza Tahrir in teoria a sostegno dei manifestanti, gli altri dicevano ‘No, no, sono dalla nostra parte’, ma io conosco quella gente, so come fanno le cose. E mentre tutto stava andando a rotoli, l’occidente, e in particolare gli Stati Uniti, predicavano il rispetto del percorso democratico e la necessità che entrambi gli schieramenti tenessero un comportamento moderato, come se i rapporti di potere fossero equilibrati. Il messaggio era ‘Non preoccupatevi, quando ci sarà un presidente eletto sarà tutto finito’”.

In Siria, che resta frammentata e in conflitto dopo quasi un decennio di instabilità, il potenziale che si era sprigionato nei primi giorni della rivoluzione sembra oggi irriconoscibile. L’impatto della guerra e delle rivolte ha lasciato nel caos una regione che non si era ancora ripresa dall’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003. Agli occhi di molti lo spettro dell’autodeterminazione appare più lontano che mai e il mondo più in generale un posto molto diverso.

“La guerra in Iraq e la primavera araba hanno portato alla nascita del gruppo Stato islamico e alla guerra civile siriana, che a loro volta hanno provocato la crisi dei profughi in Europa contribuendo all’ascesa del populismo in occidente e al voto a favore dell’uscita dall’Unione europea nel Regno Unito”, afferma Emma Sky, ex consigliera dei comandanti generali statunitensi in Iraq. “Riguadagnare il controllo delle frontiere per limitare l’immigrazione è stato un fattore determinante della Brexit. Anche la guerra in Iraq ha contribuito a far perdere all’opinione pubblica la fiducia negli esperti e nel sistema. Il trionfalismo degli Stati Uniti dopo la guerra fredda ha distrutto e bruciato il Medio Oriente. La guerra in Iraq ha fatto da catalizzatore. L’incapacità di fermare lo spargimento di sangue in Siria ne è la prova”.

Secondo Hellyer, i regimi hanno imparato poche lezioni, “a parte quelle sbagliate”, e si sono trovati davanti a due possibilità. “Una è aprirsi, più o meno lentamente, e intraprendere il lungo e difficile percorso verso la costruzione di stati sostenibili nel ventunesimo secolo, che comprendano una sicurezza generale, diritti umani inclusi, per le loro popolazioni. L’alternativa è convincersi che con una piccola apertura le popolazioni decideranno di cacciare via a calci le élite postcoloniali, e impedire questa eventualità aumentando il più possibile il controllo e reprimendo qualsiasi forma di dissenso”.

Okail, che ha trascorso gran parte degli ultimi otto anni in esilio dopo essere stata accusata di ricevere finanziamenti stranieri come direttrice dell’organizzazione per i diritti umani Freedom house, è convinta che, nonostante le battute d’arresto, “sia valsa la pena” portare avanti la lotta.

“Abbiamo ottenuto delle piccole vittorie e stiamo ancora combattendo”, sostiene. “Anche se più le cose rimarranno così, più sarà difficile che il paese si riprenda. Per il bene dei diritti umani e della democrazia non dovremmo solo fare affidamento sul governo per cambiare le cose. Abbiamo bisogno di energie e di approcci diversi. Ecco come si cambiano davvero le cose”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian.

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