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In Kenya la democrazia ha bisogno di qualcosa di più delle elezioni

Il seggio elettorale della scuola elementare di Gatina durante le elezioni generali del Kenya a Kawangware, Nairobi, o9 agosto 2022. (Patrick Meinhardt, Afp)

Ogni cinque anni le redazioni dei giornali stranieri si ricordano che esiste il Kenya. Va bene, forse esagero e non rendo onore al favoloso lavoro svolto dagli atleti per tenere alto il nome del loro paese in ogni città che osa ospitare una maratona internazionale. Eppure sembra che ogni cinque anni, quando c’è un’elezione alle porte, gli occhi del mondo si spostino verso l’Africa orientale come avvoltoi che volteggiano su una carcassa, bramando un nuovo scontro tra titani o un’infiammata di violenza. Gli articoli quasi si scrivono da soli – si dice qualcosa sul “tribalismo” (scusate, etnonazionalismo) e sugli odi primordiali, si inseriscono alcune righe sulla competizione dinastica e magari si butta lì un’allegoria sulla savana. Una lunga lista di luoghi comuni che sono abbastanza vaghi da attirare l’attenzione di un pubblico lontano che ha bisogno di ricordare periodicamente le tragedie in Africa per provare qualche emozione e provare un po’ di gratitudine per la propria sorte.

L’errore al cuore di questo ragionamento è pensare che la democrazia sia qualcosa che accade a ogni appuntamento elettorale. In qualche modo negli ultimi trent’anni, non solo in Kenya ma in tutto il mondo, l’idea di democrazia è stata dissanguata da qualsiasi significato reale e distorta nella caricatura di una figura nera stilizzata che lascia cadere un pezzo di carta in una scatola. È il trionfo dei consulenti per la democrazia: tradurre con successo sistemi sociali complessi in piani biennali e indicatori di performance in dieci punti che devono essere raggiunti prima della chiusura di bilancio del donatore.

Ma è una tragedia per il popolo. La democrazia viene ridotta all’atto del voto, si toglie significato al suo ruolo di duro e paziente lavoro per costruire società che siano pensate per le persone che vivono al loro interno.

La distruzione di un paese
Quelli di noi che vivono in Kenya e hanno a cuore la sua sorte, quindi non i semplici spettatori delle campagne elettorali che si svolgono ogni cinque anni, sanno che la democrazia nel paese è in difficoltà, a prescindere da ciò che succederà il 9 agosto. Negli ultimi dieci anni la Jubilee administration guidata dal presidente Uhuru Kenyatta ha governato principalmente per decreto. L’esecutivo ha svuotato le istituzioni civiche chiave al servizio di progetti costosi e mal congegnati che hanno indebitato il paese e hanno messo in ginocchio la sua economia. E ora siamo qui con costose cianfrusaglie che hanno fruttato miliardi alle aziende e ai governi stranieri che le hanno messe in piedi ma non hanno senso nel contesto locale e che pagheremo per generazioni a tassi da usura. Una linea ferroviaria che percorre solo metà del paese. Una strada a pedaggio sopraelevata costruita per soddisfare le esigenze degli expat (che non votano e non pagano le tasse), in una città in cui solo il 15 per cento delle persone si sposta con un’auto privata.

La partecipazione popolare che dovrebbe portare una forma di controllo su alcune leggi chiave e sulla spesa pubblica è una farsa. Scriviamo annotazioni che non vengono mai lette, andiamo a udienze che non vengono mai adeguatamente documentate, presentiamo casi in tribunale solo perché i giudici decidano secondo la legge, che viene capovolta quando la legge non approva l’agenda dell’esecutivo. Solo un articolo pubblicato su un quotidiano internazionale è riuscito a indurre il governo a ritirare il progetto di abbattere a Nairobi un albero storico, più vecchio della città stessa. Proteste, sdegno e ordini del tribunale non sono invece bastati a salvare i circa quattromila alberi che sono stati tagliati intorno alla capitale negli ultimi cinque anni.

Il sistema scolastico è allo sbando. Contro il parere degli esperti locali, il bellicoso ministro dell’istruzione ha imposto un piano di studi che sta danneggiando allo stesso modo bambini e genitori, ma i sindacati degli insegnanti, i cui leader sembrano aver dimenticato in campagna elettorale gli abusi e le violenze a cui sono stati sottoposti, restano in silenzio. Durante la pandemia centinaia di migliaia di giovani che studiavano in collegio sono stati tenuti lontani dalle loro famiglie per quasi un anno, senza consultarsi con i loro genitori e senza alcuna misura per aiutarli a elaborare il trauma. Migliaia di bambini – quasi il doppio femmine rispetto ai maschi – non sono tornati a scuola. Le misure di austerità innescate da una scarsa pianificazione economica hanno fatto sì che la più grande università del paese stia progettando di eliminare i suoi dipartimenti di scienze umane e sociali, mentre docenti e sindacati universitari rimangono in silenzio. Nessuna strada si è riempita di manifestazioni per esprimere dissenso. E quando i almeno i bambini protestano il governo minaccia di identificarli e di penalizzarli, negando loro l’accesso all’istruzione superiore. L’unico modo in cui riescono ad attirare la nostra attenzione è quando danno fuoco alle loro scuole.

Queste elezioni non sono interessanti, ed è intellettualmente disonesto aspettarsi che ci sforzeremo di far finta che lo siano

Anche le crisi internazionali bussano alla porta. I prezzi del petrolio sono i più alti della storia. La pandemia incombe ancora. Il cambiamento climatico ha prodotto il quinto ciclo di siccità e la minaccia di carestia aleggia su gran parte del paese. I mezzi d’informazione indipendenti sono stati svuotati dal controllo dello stato e dalle crisi finanziarie. Eppure niente di tutto questo è all’ordine del giorno nei programmi elettorali. Invece veniamo trascinati in una farsa in cui i principali candidati rivendicano entrambi i presunti successi degli ultimi dieci anni mentre sconfessano proprio il governo di cui hanno fatto parte.

(Questa è la parte in cui si potrebbe dire: “Ma potrebbe essere peggio, almeno tu non sei nell’Altro Paese X!”. Potrebbe essere peggio, ma dovrebbe essere meglio, e questo è lo scopo della democrazia).

Queste elezioni non sono interessanti, ed è intellettualmente disonesto aspettarsi che ci sforzeremo di far finta che lo siano. Le cose più importanti nella democrazia keniana sono già accadute o stanno accadendo in luoghi che le letture superficiali e semplificatorie non vedranno: tra un ciclo elettorale e l’altro, fuori dalla capitale, all’interno dei governi locali, in istituzioni come sindacati e movimenti di protesta. Non sta succedendo niente di interessante a livello nazionale: una costellazione di uomini che sono stati scelti per il potere da un autocrate invecchiato e che non hanno mai avuto un vero lavoro usano un intero paese per non svelare come vivono.

Seguire il modello dello scontro tra titani è una deviazione noiosa dal vero lavoro della democrazia. Siamo annoiati. Siamo in questa situazione da almeno trent’anni. Trent’anni trascorsi a guardare lo stesso cast di personaggi girare l’uno intorno all’altro, promettendo il mondo e portando il caos. Trent’anni a fingere che dopo che avranno finito di litigare tra loro non si incontreranno al country club e non si sorrideranno da una parte all’altra parte dei bar in cui non ci è permesso entrare. Trent’anni a fingere che i loro figli non frequentino le stesse scuole o giochino negli stessi club di polo. Siamo annoiati.

Ed è giusto così. Le cose importanti possono essere noiose, spesso lo sono. Forse l’errore più grande che il mondo ha commesso è quello di volere rendere la politica un cosa glamour. L’accettazione collettiva dell’idea che la politica dovrebbe essere brillante è culminata in una cultura della disinformazione, una spesa disordinata e al ridursi delle conversazioni decisive in contenuti da social network. Forse questa idea che la politica sia una riserva infinita di materiale per i mezzi d’informazione è la ragione per cui la politica di così tanti paesi è finita in spettacolo o pantomima. Forse la politica dovrebbe essere solo difficile e noiosa.

Voterò, perché ai miei nonni e bisnonni è stato negato il voto da un governo coloniale razzista, e questo è il minimo che posso fare per onorare la loro memoria. Ma lo faccio sapendo che il voto e le elezioni non fanno una democrazia. Consentitemi di votare soffocando uno sbadiglio e leggendo un libro, rifiutando di rispondere a 19 domande su “competizione dinastica e odio primordiale”. La cosa più interessante della democrazia in Kenya non sono queste elezioni.

(Traduzione di Stefania Mascetti)

Da sapere
Il Kenya al voto

Oltre 21 milioni di elettori sono chiamati alle urne il 9 agosto per scegliere il successore di Uhuru Kenyatta, in carica dal 2013 e impossibilitato a candidarsi per un terzo mandato. Devono inoltre essere eletti i deputati e i rappresentanti locali.

I quattro candidati alla presidenza si sono impegnati a garantire elezioni pacifiche, firmando un codice di condotta creato appositamente dalla piattaforma apolitica Mkenya Daima (Keniani per sempre), fondata nel 2012. William Ruto, della coalizione Kenya Kwanza e attuale vicepresidente, Raila Odinga di Azimio la Umoja e leader dell’opposizione, George Wajackoyah del Roots Party e David Mwaure dell’Agano Party hanno firmato il documento in cui si impegnano a mantenere la pace durante e dopo il voto.

I favoriti sono Raila Odinga, 77 anni, alla sua quinta candidatura alla presidenza, sostenuto da Kenyatta, e William Ruto, 55 anni e vicepresidente uscente.


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