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L’economia africana è un ghepardo che vuole correre

Kasumbalesa, Zambia, 7 maggio 2022. (Zinyange Auntony, Bloomberg/Getty Images)

Dopo un primo rinvio dovuto alla pandemia di covid-19 e poi un secondo per non intralciare i mondiali di calcio, domenica 5 marzo si apre in Qatar la quinta conferenza delle Nazioni Unite sui paesi meno sviluppati. Chiamati in inglese Least developed countries (Ldc), sono quelli più lontani dagli obiettivi dell’Agenda 2030, come l’azzeramento della povertà estrema, il diritto universale all’istruzione o l’accesso all’acqua pulita. Alla conferenza, in programma per cinque giorni a Doha, prenderanno parte capi di governo, ministri, esponenti di agenzie dell’Onu, delegati e attivisti delle società civili di tutto il mondo.

Ci sarà però un continente più rappresentato degli altri: l’Africa. “Su 46 Ldc ben 33 sono subsahariani”, ci ricorda Demba Moussa Dembelé, economista di origine senegalese, già organizzatore del Forum sociale mondiale a Dakar e ora presidente dell’associazione Africaine de recherche et de coopération pour l’appui au développement endogène (Arcade). Alla conferenza ci sarà anche lui, che però non si fa illusioni: è convinto che la bozza del documento finale, il Doha programme of action, riproponga le stesse formule adottate un decennio fa nella città turca di Istanbul, perlopiù disattese e incapaci di imprimere una svolta. “Sono pessimista”, confida Dembelé. “Per l’Africa non cambierà nulla finché non ci saranno leader politici impegnati a servire i cittadini invece delle multinazionali o governi stranieri”.

Nel Doha programme of action sono indicate sei direttrici di intervento, dalla promozione del commercio alla condivisione di tecnologie, dalla lotta ai cambiamenti climatici all’impegno finanziario, in un’ottica di solidarietà internazionale. La forma è però quella di un appello a donatori istituzionali e privati, governi e parlamenti nazionali, chiamati a mantenere promesse su base volontaria.

“La parola chiave è sovranità. Quella che gli stati africani hanno perso piegandosi ai diktat neoliberisti del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale”

Fin dalla prima conferenza, che si tenne a Parigi nel 1981, l’obiettivo dichiarato era far sì che la classificazione di “paesi meno sviluppati” fosse abolita grazie al diffondersi di benessere e opportunità. Oltre quarant’anni dopo, come si evince dalla bozza del Doha programme of action, i delegati ascolteranno invece nuovi allarmi su un mondo “sempre più ferito da povertà, malnutrizione e disuguaglianze, violazioni dei diritti umani, divari digitali, emergenze umanitarie e conflitti armati, insicurezza, pandemie, degrado ambientale e cambiamento climatico”.

Secondo i dati che saranno presentati in Qatar, oggi nei paesi più svantaggiati una persona su tre vive in condizioni di “povertà estrema”. E l’Africa è il continente più esposto.

Uno dei nodi, dopo decenni di dibattiti, promesse e campagne della società civile internazionale, resta il debito. Lo ha ricordato la rivista statunitense Foreign Policy dopo il default del Ghana, il terzo paese africano a fallire ai tempi del covid, nonostante solo nel 2019 fosse stato celebrato dal Fondo monetario internazionale come l’economia “a crescita più rapida del mondo”. Dembelé propone una lettura critica.

“Per anni”, dice, “con l’obiettivo di rendere il Ghana attraente per gli investitori stranieri il governo di Accra ha garantito esenzioni fiscali e deregolamentato il flusso dei capitali, creando i presupposti per un fallimento inevitabile”. Secondo l’esperto, per affrancare i paesi svantaggiati dal fardello del debito serve un sussulto sociale e politico. “La parola chiave è sovranità”, scandisce Dembelé: “Quella che gli stati africani hanno perso piegandosi ai diktat neoliberisti del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale”. Tra i nodi da sciogliere ci sarebbe l’esposizione crescente degli stati africani nei confronti di fondi di investimento e speculatori privati, come ha confermato la vicenda dello Zambia, andato in default nel 2020. “Il paese è fallito”, sottolinea Dembelé, “perché questo tipo di creditori non ha acconsentito alla ristrutturazione del debito”.

Tra le parole che tornano nell’intervista c’è “delinking”, come dire disconnessione ma anche autonomia o sovranità, dunque la capacità di decidere delle proprie politiche.

Il punto è cruciale anche secondo Carlos Lopes, economista originario della Guinea Bissau e dagli orizzonti globali, anche lui pronto a partire per Doha. Occhiali e modi gentili, ha un curriculum fuori dall’ordinario: già vicesegretario generale dell’Onu e ascoltato braccio destro di Kofi Annan (con lui in due anni ha incontrato ottanta capi di stato), poi Alto rappresentante dell’Unione africana per i rapporti con l’Europa, insegna alla Nelson Mandela School of Public Governance presso l’Università di Città del Capo, è visiting professor a Sciences Po a Parigi e associate fellow del centro studi londinese Chatham House. Lopes anima il dibattito con le analisi pubblicate sul suo blog, Africa cheetah run (La corsa del ghepardo africano), metafora del continente che potrebbe essere.

Dimenticate i leoni, spiega in videocollegamento da Città del Capo. Quelli africani saranno pure “on the move”, come titolava a inizio secolo un celebre studio di McKinsey, ma restano pigri, indolenti e inefficienti. Tutt’altra storia i ghepardi, che possono raggiungere i cento chilometri orari in tre secondi e hanno anche altre qualità. “Cacciano in gruppo con spirito di squadra, non lo fanno per il gusto di uccidere, pianificano gli sforzi e non sbagliano un colpo”, spiega Lopes. “Sono corridori-strateghi, capaci di selezionare e ordinare le priorità”. Il punto, per l’Africa, sarebbe proprio questo: identificare l’obiettivo e fare sistema. Lopes ama le metafore naturalistiche. Ecco allora le tigri asiatiche, dalla Corea del Sud giù fino a Singapore, paesi che si sono industrializzati a ritmo accelerato concentrando sui settori di volta in volta prioritari il lavoro delle istituzioni, la ricerca scientifica e gli investimenti imprenditoriali. E ci sono poi le oche volanti, in formazione a v, con un leader e dei follower: è il modello dell’economista giapponese Kaname Akamatsu, che potrebbe essere utile – mutatis mutandis – anche all’Africa di oggi. “Alcuni paesi”, chiarisce Lopes, “devono funzionare da magneti, attirando e guidando la trasformazione strutturale”.

Ma di che trasformazione parliamo se Foreign Policy titola ancora sul “problema del debito africano”? “Le proposte del G20 sono state un fallimento totale”, accusa Lopes, bocciando sospensioni dei pagamenti degli interessi, “ristrutturazioni” o “diritti speciali di prelievo” da erogare attraverso il Fondo monetario internazionale. La critica investe indifferentemente tutte le presidenze del gruppo delle grandi potenze: quella saudita nel 2020, quella italiana nel 2021 o quella indonesiana lo scorso anno. Secondo Lopes, sospendere il pagamento degli interessi sul debito vuol dire solo “tirarla per le lunghe”, peraltro neanche tanto visto che la misura è già stata revocata. Stesso discorso per le ristrutturazioni, che prevedono saldi su tempi differenti ma zero sconti. “La dice lunga che al programma abbiano aderito solo tre paesi su 54, Etiopia, Zambia e Ciad”, annota l’esperto. “E a concludere le trattative è stato il solo Ciad, che non ha ottenuto alcuna ristrutturazione ma solo il via libera a nuovi prestiti, con il risultato paradossale di un aggravarsi del debito”.

Non aiuterebbero neanche le riallocazioni dei “diritti speciali di prelievo”, di fatto prestiti a tassi vicini allo zero immaginati per fronteggiare le conseguenze della pandemia. “All’Africa dovrebbe spettare solo il 5 per cento della somma totale di 650 miliardi di dollari, dunque 33 miliardi”, ricorda l’economista. “E tutte le richieste di aumentare queste risorse sono finite nel nulla”. A pesare è stata l’inazione dei paesi detentori della maggior quota di diritti speciali, come gli Stati Uniti, che hanno disponibilità per oltre 162 miliardi ma non hanno riallocato nulla. La tesi di Lopes è che il covid sia stato allora un’occasione mancata: “Aveva creato i presupposti per ragionare sugli squilibri globali, su un ruolo dello stato più incisivo e su nuove regole del gioco, eppure oggi i prestiti istituzionali restano insufficienti mentre di quelli disponibili sul mercato, con tassi di interesse più alti e il dollaro sempre più caro, è meglio non parlare affatto”.

E il balzo del ghepardo, allora? Lopes spera nell’African continental free trade area (Afcfta), un progetto di integrazione lanciato nella capitale ruandese Kigali nel 2018, al quale hanno aderito 54 paesi con una popolazione complessiva di un miliardo e 300 milioni di persone. Secondo l’economista, l’idea di un mercato unico è ambiziosa e imprescindibile. Uno degli obiettivi sarebbe favorire una crescita degli scambi tra i paesi del continente, oggi appena il 14 per cento del valore totale, molto di meno di quanto non accada per l’Europa (66 per cento) o per l’Asia (63).

“L’alternativa è che l’Africa resti alla mercé delle grandi potenze”, avverte Lopes. “Sarebbe assurdo perché il continente ha le chiavi della transizione energetica globale, con il suo potenziale di rinnovabili, l’idrogeno verde e pure i giacimenti di uranio, mentre è destinato a essere il mercato del mondo: nel 2040 un neonato su due sarà africano”. Oltre al marketing però servirà la politica. “Solo allora i ghepardi potranno scattare per davvero”, sorride Dembelé. Ha le valigie pronte per Doha, dove gli piacerebbe incontrare Lopes.

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