A New York la libertà è suonare e votare
Ero sicura di aver fatto la scoperta dell’anno, che avrebbe entusiasmato la redazione di Haaretz. Proprio sotto l’arco del parco di Washington square c’era un pianoforte a coda, e un ragazzo suonava Chopin e Beethoven. Trombe, sassofoni, chitarre, percussioni, strumenti vari (una volta, in quello stesso parco, sono rimasta strabiliata da un percussionista che suonava una serie di secchi di plastica): questi indispensabili elementi di vita urbana mi ricordano sempre una mia amica romena.
A metà degli anni ottanta, gli anni più bui del regime di Ceausescu, la mia amica era riuscita a ottenere un permesso per viaggiare all’estero, e ci eravamo conosciute a Parigi. Lo spazio aperto davanti al Centre Pompidou era riempito dalle note gioiose di un gruppo musicale colombiano. La mia amica era rimasta lì per ore ad ascoltare. “Per me questa è la libertà”, mi aveva detto. Nel suo paese non sarebbe mai stato possibile.
Possiamo filosofeggiare a lungo su quanta libertà ci sia nella possibilità di guadagnare qualche spicciolo in uno spazio aperto, manifestando il proprio talento e nascondendo la propria frustrazione per l’impossibilità di esibirsi in contesti più ufficiali e “rispettabili”. Ma il nero del piano, sotto il bianco dell’arco e quelle note così familiari mi hanno resa serena.
Presto ho scoperto che la mia non era affatto una scoperta. Il pianista, Colin Huggins, suona quel pianoforte a coda nel parco ogni fine settimana, da otto anni. Negli intervalli tra un brano e l’altro ha ricordato al pubblico di votare per “Bernie” alle prossime primarie.
In questo momento dev’essere molto deluso.
(Traduzione di Andrea Sparacino)