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La felicità di un bambino è diversa in Palestina e a New York

Ragazzi palestinesi a Qabatya, in Cisgiordania, il 4 aprile 2016. (Abed Omar Qusini, Reuters/Contrasto)

Il padre fondatore degli Stati Uniti Alexander Hamilton mi ha convinta a smettere di criticare la decisione dei miei giovani amici di non tornare in Israele. Sono entrambi professionisti e accademici di successo che si sono trasferiti a New York con un figlio di tre anni e una generosa borsa per completare gli studi. Il problema è che come molti altri brillanti (e meno brillanti) studenti israeliani di dottorato continuano a prolungare il soggiorno. Intanto è nato un secondo figlio e il mutuo che pagano per l’appartamento che hanno comprato si estinguerà solo nel 2035.

Ma i miei due amici non sono israeliani come tutti gli altri: sono arabi israeliani. “Il vostro posto è a casa”, gli ho detto, rivolgendomi idealmente a tutti gli altri che si trovano nella loro situazione. “La lotta per la democrazia e contro l’occupazione ha bisogno di voi”.

Il mese scorso mi hanno mostrato con orgoglio un video sul loro smartphone in cui il figlio, che ormai ha dieci anni, canta le canzoni del musical di successo Hamilton. Lo spettacolo, scritto (testi e musica) da Lin-Manuel Miranda (i cui genitori vengono da Puerto Rico), racconta le storie intrecciate di un uomo nato ai Caraibi che diventerà il primo segretario al tesoro degli Stati Uniti e del nuovo paese che si appresta a tagliare i ponti con la madre patria.

Il figlio dei miei amici canta in modo impeccabile, ricorda tutte le parole e si muove con grande sicurezza. La felicità sul suo volto mi ha costretta ad ammettere che è quasi impossibile trovare un’espressione simile sul volto dei bambini palestinesi che vivono sotto il dominio israeliano.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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