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Espulsione rinviata

Una protesta contro l’evacuazione di alcune abitazioni nell’insediamento di Ofra, in Cisgiordania, durante un’operazione condotta dell’esercito israeliano, febbraio 2017. (Ronen Zvulun, Reuters/Contrasto)

Una mia amica ha fatto un sogno in cui i soldati e i coloni israeliani facevano irruzione nella sua casa nella città vecchia di Nablus, in Cisgiordania. Ha scritto su Facebook: “Ero talmente spaventata che non riuscivo a trovare il telefono per chiamare Amira Hass e raccontarle cosa stava accadendo (il mio primo istinto, nel sogno)”.

Il sogno mi ha fatto riflettere sulle mie fonti. I soldati e i funzionari civili israeliani non chiamano mai per avvertirmi di un piano di espulsione appena messo a punto. A volte alcuni funzionari civili palestinesi accettano di condividere le informazioni, ma raramente sono loro a cercarmi. La stampa israeliana non è in cima ai loro pensieri, anche se un articolo e un editoriale di Haaretz sul progetto di espellere due comunità di pastori dalla valle del Giordano settentrionale stanno producendo effetti importanti. Gli ufficiali della sicurezza palestinese di solito tengono la bocca chiusa.

Le mie fonti sono da sempre le persone ordinarie. E i migliori nel darmi informazioni in tempo reale sono gli attivisti israeliani. Condividiamo un obiettivo: mettere i bastoni tra le ruote ai provvedimenti di espulsione. Il 9 novembre un attivista di Taayush mi ha chiamato in preda all’ansia: l’esercito aveva appena ordinato di evacuare tutte le proprietà nell’area di Al Maleh, nella valle del Giordano. Due comunità di pastori composte da trecento persone temevano che l’esercito potesse arrivare in qualsiasi momento per confiscare tutti i loro averi: cammelli, pecore, mucche, baracche, recinti, cisterne.

Naturalmente il provvedimento di espulsione è illegale. L’intervento di un avvocato e gli articoli di Haaretz hanno in qualche modo rinviato la catastrofe. Ma per fermarla ci vuole di più. Serve un intervento internazionale.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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