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È giusto preoccuparsi delle fake news, e continuare a farlo

Daniel Grizelj, Getty Images

Nel 2017 la diffusione delle notizie false in rete preoccupa “abbastanza o molto” il 78 per cento degli utenti, secondo un sondaggio condotto dalla Bbc in 18 paesi. Nel medesimo sondaggio, il 58 per cento degli utenti dichiara che internet non dovrebbe essere oggetto di regolamentazione da parte dei governi. Bene: che si fa?

Per cominciare, eccovi un velocissimo riassunto delle puntate precedenti: tutto sembra succedere a fine 2016. Donald Trump è eletto presidente degli Stati Uniti. La campagna, secondo un paper assai citato e pubblicato dagli economisti Hunt Allcott e Matthew Gentzkow, è contraddistinta da quattro fatti inediti.

  • Il 62 per cento degli adulti americani oggi si informa attraverso i social media.
  • Le notizie false più popolari sono condivise molto più delle notizie prodotte da media accreditati (mainstream news).
  • Tante persone esposte a notizie false dichiarano di crederci.
  • Le notizie false più gettonate sembrano favorire Donald Trump.

Conclusione di molti commentatori: le notizie false hanno facilitato l’elezione di Trump. Per inciso: poco prima c’era stata la Brexit, e anche in quel caso le notizie false sembrano aver giocato un ruolo importante.

Due settimane dopo l’elezione di Trump, l’Oxford Dictionary proclama post-truth (post-verità) parola dell’anno, sia per l’edizione inglese sia per l’edizione americana. Motivo: l’uso del termine è cresciuto del 2.000 per cento nel 2016. A novembre 2016, a dibattito già iniziato sulle notizie false, Mark Zuckerberg nega formalmente che Facebook sia una media company (un’azienda che produce contenuti editoriali): è solo una piattaforma tecnologica e non ha alcuna responsabilità per i contenuti che si trova a ospitare. Google si comporta un po’ meglio.

Nel caso il dettaglio vi sembrasse irrilevante: una media company è responsabile di fronte alla legge dei contenuti che pubblica. Non a caso i giornali hanno un direttore responsabile (editor-in-chief negli Stati Uniti). Una piattaforma tecnologica, invece, non ha alcuna responsabilità.

In seguito Zuckerberg assume una posizione più sfumata – siamo sì una media company, “ma non tradizionale”. E sembra quasi di sentire Kellyanne Conway che difende le bufale presidenziali sull’affluenza alla cerimonia d’insediamento dicendo che sta parlando sì “di fatti, ma alternativi”. Ecco: che Facebook non sia una media company è, al massimo, un “fatto alternativo”.

Le caratteristiche di un mezzo d’informazione
Eppure a un anno di distanza (ottobre 2017) Sheryl Sandberg, direttrice operativa di Facebook, torna a insistere sull’argomento. E Wired elenca i molti motivi per cui dovrebbe astenersi dal farlo, ma già i primi elementi basterebbero: Facebook è la più grande fonte di notizie negli Stati Uniti. È la prima fonte per i giovani. E guadagna grazie alla pubblicità.

A proposito di pubblicità, il fatto più rilevante lo cita Business Insider: Facebook e Google hanno avuto un impatto drammatico sull’intero comparto dei mass media proprio perché la pubblicità, che è una risorsa economica vitale per qualsiasi testata, ormai si sta spostando in rete. Oggi il 99 per cento della crescita degli investimenti in pubblicità digitale va a Google e a Facebook. Peraltro, l’88 per cento dei guadagni di Google e il 97 per cento dei guadagni di Facebook deriva dalla pubblicità.

Da dove arrivano i profitti di cinque grandi aziende tecnologiche.

Ora, consideriamo un ultimo dato: oggi le cinque maggiori aziende mondiali per capitalizzazione hanno tutte a che vedere con le nuove tecnologie (e specialmente con internet). In soli dieci anni, Apple è passata dal 70º al primo posto (merito dell’iPhone). Alphabet, a cui fa capo Google, è passata dal 29º al secondo posto. Microsoft presidia stabilmente il terzo posto. Amazon è passata dal 367º al quinto posto. Facebook, che è al quarto posto, dieci anni fa non era neanche quotata (la fonte di questi dati è Bloomberg).

Tutte queste aziende sono ampiamente dominanti nel loro mercato. Due di queste, Alphabet e Facebook, possono orientare il flusso mondiale dell’informazione tanto da modificare il corso degli eventi. A giugno 2017 Facebook ha raggiunto i due miliardi di utenti nel mondo.

Dopo Facebook, al secondo posto tra i social media c’è YouTube, di proprietà di Alphabet, con un miliardo e mezzo di utenti mensili. Seguono WhatsApp e Messenger (1,2 miliardi di utenti mensili ciascuno) e Instagram (700 milioni di utenti mensili), tutti di proprietà di Facebook.

Sia Facebook sia Alphabet spendono delle belle cifre in operazioni lobbistiche. Poiché entrambe vivono grazie alla pubblicità, la qualità dell’informazione veicolata è, tutto sommato, per entrambe poco rilevante in termini di impresa.

Intanto, a quasi un anno di distanza dalle elezioni statunitensi, l’impatto delle notizie false comincia a essere quantificato, almeno per quanto riguarda l’ormai dimostrata ingerenza russa su Facebook: fino a 126 milioni di utenti potrebbero essere stati raggiunti da circa 80mila post astiosi e divisivi (qui alcuni esempi). È quasi la metà dell’intero corpo elettorale statunitense.

Il dato, dice il New York Times, è molto superiore alle stime precedenti.

Questi sistemi possono essere usati per manipolare l’opinione pubblica in modi incompatibili con la democrazia

Il caso più clamoroso riguarda però il falso profilo di Jenna Abrams, uno dei 2.752 chiusi da Twitter perché creati dalla Internet research agency di San Pietroburgo, la fabbrica russa dei troll. La falsa paladina della destra americana è stata, dal 2014 a oggi, citata dal New York Times, da BuzzFeed, dal Washington Post, da Quartz e da molte altre testate autorevoli che ne hanno contestato i punti di vista, ma mai l’esistenza. Il che è piuttosto imbarazzante.

“Una delle cose che non avevo capito”, dice l’amministratore delegato di Alphabet Eric Schmidt, “è che questi sistemi possono essere impiegati per manipolare l’opinione pubblica in modi che sono abbastanza incompatibili con la democrazia così come la pensiamo”.

Questo è confortante (l’atteggiamento di Zuckerberg lo è meno), tuttavia sembra che gli investimenti per affrontare il problema siano ancora troppo scarsi. E purtroppo le soluzioni più ovvie, come il bollino su Facebook per certificare le notizie affidabili, sembrano inefficaci (a dirlo è una ricerca svolta dall’università di Yale) e potrebbero addirittura rivelarsi controproducenti – il bollino attira come un faro chi è in cerca di, ehm, “fatti alternativi”.

Dunque, che si fa? È tutto ancora molto confuso: le stesse dinamiche di produzione e diffusione delle notizie false sono molteplici e ancora non del tutto chiarite, tra agenzie di disinformazione, furbacchioni che vogliono guadagnare con le bufale acchiappaclic, mitomani, complottisti… e non esistono ancora dati che quantifichino il fenomeno nel suo complesso.

Un buon punto di partenza per ragionare è la ricerca commissionata dal Consiglio d’Europa e intitolata Information disorder. Toward an interdisciplinary framework for research and policy making. Ne parla anche Luca Sofri. La ricerca è importante per tre motivi: comincia a fare ordine in un ambito caotico. Contiene (pagine 80-85) una serie di raccomandazioni puntuali e concrete, anche se non semplicissime da mettere in pratica. Indica, in appendice, una serie di iniziative europee di verifica dei fatti, fact checking.

E comunque di qualcosa, già oggi, possiamo essere certi: il problema è grave. È inedito. È stato a lungo sottovalutato, sia dai governi, sia dagli articoli d’opinione, sia da Alphabet e Facebook. Per risolverlo, ammesso che sia risolvibile (l’intelligenza artificiale non è ancora abbastanza intelligente per cavarci dai guai) ci vorrà tempo e un sacco di soldi. Alphabet e Facebook ce li metteranno solo a seguito di una forte pressione da parte dell’opinione pubblica (e forse degli investitori pubblicitari istituzionali). E questo significa, in primo luogo, non allentare l’attenzione.

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