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Il prologo poco conosciuto del caso Cambridge Analytica

Rodrigo Echevarria, EyeEm/Getty Images

Seconda punta di un articolo in tre parti. Prima parte, terza parte.

Questa è la seconda puntata di un discorso su informazione e disinformazione, a partire dalla vicenda Facebook-Cambridge Analytica.

Riassunto della prima puntata: noi decidiamo in base alle informazioni che abbiamo. Quindi, informazioni infondate causano decisioni a casaccio, e la cosa riguarda tutti noi. Inoltre: la disinformazione c’è sempre stata, ma in rete va più in fretta e più lontano, la producono più persone e può farlo anche un qualsiasi signor Nessuno, cattura più facilmente l’attenzione, è verificata di meno perché anche la fruizione è più veloce.

Ora, entriamo nel vivo della vicenda di Cambridge Analytica. In apparenza, la vicenda riguarda un’enorme appropriazione di dati. Nella realtà, la vicenda riguarda il fatto che navigando in rete lasciamo infinite tracce di noi, che si possono combinare per ottenere un preciso profilo di chi siamo, come pensiamo, che cosa vogliamo.

Una domanda apparentemente ingenua
Ovviamente, chi si prende la briga di estrarre i nostri dati personali ed elaborarli non è interessato a noi come individui, né ai nostri mi piace, alle nostre foto di gattini e alle nostre gite fuori porta. È interessato a trovare leve efficaci per orientare, persuadere, manipolare attraverso la disinformazione, e facendo leva sulle nostre attitudini, i nostri interessi, dai gattini alle gite, e le nostre passioni.

Ed eccoci al terzo tema di questo ragionamento.

Al di là dello scandalo dell’appropriazione di dati, che ovviamente va perseguita, proviamo a farci una domanda apparentemente ingenua: come mai i dati di Facebook sono così cruciali, visto che in rete e senza bisogno di alcun dato qualsiasi signor Nessuno, in teoria e anche in pratica, può disinformare una quantità di persone inventando attraenti panzane chiuso nella sua cameretta?

Anche voi, se volete convincere qualcuno ad accompagnarvi a vedere un film dovete fare un piano di marketing

Be’, la risposta è semplice: il signor Nessuno è un dilettante, che può anche essere abile e fortunato, ma resta un dilettante. I professionisti lavorano in un altro modo.
Facciamo un passo indietro.

Perché un’offerta (ogni offerta: commerciale, politica, eccetera) sia accettata, bisogna che arrivi alla persona giusta. E deve trattarsi dell’offerta giusta, presentata e argomentata con un messaggio giusto, e attraverso il medium di comunicazione giusto. Qualsiasi sia l’offerta, funziona sempre così.

Fate mente locale: anche voi, se volete convincere qualcuno ad accompagnarvi a vedere un film (cioè, se volete promuovere un’offerta) sfogliate l’agenda cercando un amico appassionato di cinema (selezionate la persona giusta, segmentandola all’interno del gruppo dei vostri amici), poi pensate a cosa dirgli per convincerlo (ottimizzate il messaggio) e, infine, decidete se è meglio fargli una telefonata, usare WhatsApp o passare da casa sua e citofonare (medium). Con ciò, avete fatto un perfetto piano di marketing.

Segmentare il pubblico
Il problema, per le aziende che non devono andare al cinema, ma vendere un sacco di prodotti a una quantità di persone, è capire come presentare la loro offerta a quali persone, con quali messaggi e argomentazioni, e sapere quali sono i media più adatti a raggiungere senza dispersioni (cioè: senza sprechi di denaro) proprio quelle persone lì.

Fino ai primi anni settanta, le aziende individuavano (segmentavano) le fasce di pubblico potenzialmente interessate alla loro offerta in base a dati sociodemografici: età, sesso, occupazione, luogo di residenza, fascia di reddito, livello d’istruzione, stato civile e così via.

È una tecnica rudimentale: pensate a due insegnanti di 30 anni, sposate, che abitano a Milano. Sono sociodemograficamente simili, ma non è per niente certo che abbiano analoghe propensioni: una (ehi, siamo negli anni settanta) ama la musica classica, gira in tailleur e filo di perle, va dal parrucchiere tutte le settimane, legge Gente, è una cuoca appassionata.

L’altra ama i Beatles e i Rolling Stones, legge l’Espresso, va dal parrucchiere quattro volte all’anno perché ha i capelli lunghi e li spunta soltanto, gira in pantaloni e pullover. Una compra la lacca per capelli, l’altra non la vuole neanche vedere. Una compra i dadi per brodo, l’altra, se non fa prima il bollito, non cucina neanche il risotto.

Un sistema di profilazione
La soluzione arriva con la ricerca psicografica. Probabilmente avete letto questo termine anche a proposito di Cambridge Analytica, e forse avete notato che in molti articoli appare scritto tra virgolette, come se si trattasse di una parola esoterica. Probabilmente è perché, cercando il termine psicografia su Wikipedia, ci si imbatte in questa voce che, diciamolo, è ben strana. E non c’entra nulla.

Cercando meglio si trova, oltre a una buona definizione in inglese, anche l’ottima definizione del massmediologo Adriano Zanacchi:

Modalità di ricerca, adottata prevalentemente nell’ambito del marketing e della pubblicità, che prende in considerazione aggregati di consumatori sulla base dei loro atteggiamenti. […] Particolare rilievo viene dato, nell’ambito di questo tipo di ricerca, allo studio degli ‘stili di vita’, profili psicosociologici costruiti sulla base di vari fattori, comprendenti abitudini, gusti, tipo di alimentazione, modalità di fruizione dei mass media, attenzione per i problemi della salute e altre variabili di ordine psico-sociale, condivisi da gruppi omogenei di persone.

Dunque, se a proposito di ricerca psicografica parliamo di profilazione, o di profili, tutto ciò non ha niente a che vedere con i profili Facebook, almeno per ora. Siamo ancora negli anni settanta, e Facebook sarà lanciato nel 2004.

Negli Stati Uniti la ricerca psicografica muove i suoi primi passi alla metà degli anni sessanta e grazie allo sviluppo dei computer, che offrono la potenza di calcolo necessaria a processare e incrociare enormi quantità di dati.

In Italia, la prima ricerca psicografica è stata lanciata nel 1976. Si basava su un campione di diecimila persone rappresentative della società italiana. Questi individui erano intervistati di persona, da psicologi, su batterie di centinaia di domande formulate per indagare sia le attitudini di consumo, sia l’esposizione ai diversi mass media, sia la personalità. È una faccenda che dura ore.

È anche un processo costosissimo (considerate che i sondaggi che vedete in giro sono fatti per telefono, su campioni grandi un decimo, e su poche domande). Ma i risultati sono straordinari: una mappa che profila e segmenta la società per “stili di vita”, comprendenti attitudini, orientamenti, credenze, comportamenti di consumo, esposizione ai media il sogno del marketing, tradotto in realtà.

Attraverso internet è idealmente possibile raggiungere ogni singolo cittadino con un messaggio su misura

Finalmente le aziende possono dire le cose giuste, alle persone giuste, usando il medium che meglio riesce a raggiungerle. Ma, appunto, tutto ciò è costoso. E i dati devono essere aggiornati due volte all’anno. E comunque vanno di volta in volta integrati sugli aspetti più specifici (e sono ulteriori costi).

Tuttavia le aziende sono entusiaste del nuovo strumento. Invece la politica, almeno per un lungo periodo, se ne disinteressa. Se ricordo bene, ho visto le prime profilazioni italiane in chiave elettorale solo attorno al 2000.

Se sono stati i computer a rendere possibile la ricerca psicografica, è la diffusione di internet e dei social media a cambiare tutto un’altra volta: da una parte, i social media raccolgono una gigantesca, inimmaginabile quantità di dati, in un battibaleno. Dall’altra, attraverso internet è idealmente possibile raggiungere ogni singolo cittadino con un messaggio su misura.

I grandi cinque opposti
Resta però un bel problema da risolvere: per ordinare e convertire l’enorme, indigesto fritto misto di dati personali raccolti dai social network in materiale utile a costruire un campione psicografico, bisogna connettere i dati a profili psicologici. Ci riescono due giovanotti di Cambridge, Michal Kosinski e David Stillwell. E qui entrano in gioco i Big Five, e un’idea semplice e a suo modo geniale.

I Big Five sono uno dei più noti e reputati modelli della personalità, descritta secondo cinque scale di opposti. La teoria è stata formulata nel 1985. I risultati sono efficaci.

I due giovanotti di Cambridge mettono su Facebook un test di personalità basato sui Big Five e propongono agli utenti di compilarlo. Così, in totale inconsapevolezza e pensando che sia solo un giochino, ciascun utente, rispondendo alle domande del test, disegna il proprio profilo. Ai giovanotti non resta che dire ai loro computer di correlare ciascun profilo psicografico con l’enorme quantità di dati individuali che già Facebook raccoglie e a cui permette di accedere, e di combinarli con ogni comportamento individuale in rete.

Il gioco è fatto. Combinando roba che già esisteva (i dati, la tecnica psicografica, i Big Five) si è ottenuto uno strumento nuovo: un campione costituito non da diecimila individui, ma da milioni.

Ulteriore sviluppo: nel 2014 i due giovanotti si fanno scippare la metodologia da una società a cui fa capo un’azienda che manipola campagne elettorali, e che si chiama Cambridge Analytica.

Quando leggo questa storia su Internazionale numero 1186 nel gennaio 2017, e poiché so come funziona l’intera faccenda, faccio un salto sulla sedia. Mi aspetto che il dibattito, già vivissimo, sulle notizie false, l’abuso dei dati degli utenti e la manipolazione in rete finalmente esploda in uno scandalo globale.

Invece la storia viaggia sotto traccia e a livello governativo continua a non succedere assolutamente niente per un altro anno.

Eppure.

Eppure si sa da tempo quale quantità di dati raccoglie Facebook (leggete questo articolo dell’agosto 2016), e quanto sia disinvolta e opaca la loro gestione, e che a essere coinvolti sono due miliardi di persone (come ha scritto ProPublica nel settembre 2016).

E da tempo si può ascoltare il capo di Cambridge Analytica pavoneggiarsi come protagonista di “un cambio di paradigma nella comunicazione politica” (guardate questo video dell’agosto 2015). E si sa che cosa combina Cambridge Analytica (laTechnology Review del Mit lo spiega nell’aprile 2016).

Ma mi rendo conto: tutto ciò sembra più simile a una narrazione distopica che alla realtà. Quindi, ci si focalizza sulle conseguenze (la Brexit, Trump, le notizie false) e, per quanto riguarda le premesse (l’enorme scia di dati che ciascuno di noi continua imperterrito a produrre e a consegnare a questa o a quella entità della rete) si fa finta di niente. Ma potrebbe non essere una buona idea.

Seconda punta di un articolo in tre parti. Prima parte, terza parte.

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