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La realtà fuori di noi e quella dentro di noi

Tara Moore, Getty Images

Questo che state leggendo non è un articolo. Cioè: non è un singolo articolo. È fatto di tanti articoli, diversi tra loro per un’infinità di sfumature.

Sono tanti articoli quanti siete voi che state leggendo, perché ciascuno tradurrà alla sua maniera i segni neri (gli stimoli sensoriali) che appaiono sul fondo bianco delle schermo, unendoli in parole e frasi.

Parole e frasi saranno poi decodificate da ognuno, immaginandone il suono e riconoscendo un significato, e infine (tutto ciò in millesimi di secondo) ciascuno deciderà che senso ricavare da quanto legge, e farà previsioni su dove il discorso va a parare, confrontandole con quanto scoprirà mano a mano e, se serve, rettificandole.

Ammesso che decida di continuare a leggere.

Se sì, in questa produzione di senso voi metterete in gioco le vostre migliori competenze, le vostre esperienze e i vostri ricordi, per inserire le informazioni che derivano dall’elaborazione degli stimoli sensoriali nella trama di ciò che già sapete e credete. Quello della produzione di senso è un gioco che, come afferma Umberto Eco, chi legge e chi scrive giocano insieme.

Tutto questo è magnifico, e ragionare sulla percezione è affascinante.

Ovviamente, il processo di percezione ed elaborazione si verifica con qualsiasi dato di realtà (immagine, suono, odore, sapore o sensazione tattile) che colpisca i nostri sensi, per poi trasformarsi in informazione nelle nostre menti.

Ciascuno pesca dalla realtà solo alcuni dati, poi li considera e li categorizza secondo i suoi criteri

E si verifica in modo costante, automatico, rapidissimo e tale da sfuggire all’attenzione consapevole.

Essendo noi tutti immersi in una medesima realtà, ci aspetteremmo di ricavarne tutti quanti i medesimi dati. Ma la realtà è fuori di noi, e quello che abbiamo percepito, sappiamo, conosciamo, crediamo e giudichiamo della realtà è dentro di noi.

Di fatto – filosofi e psicologi lo sanno da un bel po’ di tempo – ciascuno pesca dalla realtà solo alcuni dati, poi li considera e li categorizza secondo i suoi criteri. Per questo, ciascuno a modo suo ricostruisce dentro di sé la realtà, e il senso che hanno i dati di realtà.

Spaghetti modello
Per dire: il medesimo piatto di spaghetti è in primo luogo grassi, carboidrati e calorie per un nutrizionista, una ricetta più o meno ben eseguita e impiattata per un cuoco, un cibo tipico e difficile da mangiare senza schizzarsi per uno straniero, un sogno per un affamato, un miraggio per una persona che soffre di celiachia, un oggetto ripugnante per chi sta nel bel mezzo di un attacco di mal di mare, una tentazione per chi è a dieta, un costo per chi gestisce una mensa. E così via.

Solo se abbiamo una mente abbastanza flessibile riusciamo a immaginare come un piatto di spaghetti possa essere diversamente percepito da qualcuno che non siamo noi. Ad aiutarci, c’è il piatto di spaghetti-modello che ciascuno di noi ha nella testa, che idealmente comprende tutti gli attributi di ogni possibile piatto di spaghetti reale.

Ho detto: idealmente. Perché anche la ricchezza, il dettaglio e l’efficacia del modello che abbiamo in mente (e che ci permette di riconoscere ogni piatto di spaghetti reale riconducendolo al modello) dipende da quanto sappiamo non solo degli spaghetti, ma del mondo più in generale. E così capita per ogni modello-di-qualsiasi-cosa: sedie, cani, storie d’amore, sistemi sociopolitici.

Interessi e conoscenze
Ma non solo: perfino se siamo convinti che per noi “un piatto di spaghetti è un piatto di spaghetti”, noi stessi lo percepiamo in maniera diversa se ce lo vediamo davanti bello fumante alle cinque di mattina o all’ora di pranzo. E se si materializza al tavolo del ristorante sotto casa, o volando giù da una finestra, o in cima a un mucchio di spazzatura, o se, magia!, ce lo troviamo davanti mentre siamo all’altro capo del mondo dopo un mese che mangiamo solo schifezze.

La nostra percezione cambia ancora se, per esempio, improvvisamente qualcuno ci dice che “ in giro ci sono piatti di spaghetti avvelenati!”. E cambia di nuovo (ma non tornerà come prima) se qualcun altro ci dice che quella è una bufala. Una panzana. Una notizia falsa.

In altre parole: la nostra percezione è orientata dai nostri interessi e dalle nostre conoscenze. Dai nostri bisogni. Dal nostro stato psicofisico. Si può modificare drasticamente in base alle informazioni disponibili e alla situazione in cui ci troviamo. E può essere distorta o manipolata.

E ancora: anche il nostro umore influisce sulla percezione. Per esempio, se ci sentiamo allegri, la nostra percezione visiva si acuisce e si amplia (gli occhi sono, di norma, il nostro senso dominante, e la maggior parte degli stimoli che elaboriamo è di carattere visivo).

In un certo senso, abbracciamo il mondo con lo sguardo e (la metafora è appropriata) quando siamo felici “vediamo tutto rosa”. Se siamo tristi, “vediamo tutto nero”.

Se riusciamo a capirci (non solo sui piatti di spaghetti) e se non ci troviamo a vivere in universi paralleli del tutto separati, è perché condividiamo alcuni strumenti per gestire e allineare le nostre percezioni. Per esempio, il linguaggio ci consente di nominare, più o meno, le stesse cose con le stesse parole. E di rappresentare e confrontare a parole le nostre idee.

La controprova è che, come sa bene chi si occupa di comunicazione persuasiva, a volte basta cambiare le parole per cambiare, oppure orientare, la percezione delle cose.

Perfino se questo articolo si fosse intitolato Spaghetti avvelenati, oppure Paradigmi percettivi: un confronto empirico, le vostre attese e le vostre percezioni sarebbero cambiate, insieme alla vostra propensione ad andare a vedere di che si tratta.

Tutto questo per dire quanto la percezione sia soggettiva e mutevole.

Dovremmo ricordarcene, ogni volta che confrontiamo la nostra percezione con quella di qualcun altro e ci arrabbiamo perché, non vedendo le cose come noi, l’altro le giudica in modo diverso dal nostro.

Dovremmo anche ricordarcene (ed essere più pazienti con noi stessi) quando cambiamo opinione perché una nuova esperienza, o una nuova informazione, ha cambiato le nostre percezioni.

Un piccolo regalo
Dovremmo imparare a essere più aperti, curiosi e, sì, anche ottimisti (insomma: dovremmo imparare a guardare allegramente un po’ al di là del nostro naso) per affinare le nostre percezioni e renderle più acute. Dovremmo combattere i pregiudizi, perché distorcono le nostre percezioni e quindi distorcono anche la nostra comprensione del mondo. E dovremmo verificare le informazioni che accogliamo nel nostro paesaggio mentale.

Ora, se siete arrivati fin qui, fatevi un piccolo regalo. Alzate gli occhi dallo schermo, guardatevi attorno lentamente e notate che massa di dati lo sguardo trasmette alla vostra mente, e come la vostra mente riconosce, considera, cataloga, connette.

Sentite la superficie che state toccando con le vostre mani, la sensazione che vi trasmettono gli abiti che indossate, e tutte le altre informazioni che arrivano dai vostri sensi: suoni, sapori, odori… riconosceteli e mettete tutto assieme. State facendo qualcosa che nessuna intelligenza artificiale, neanche la più sofisticata, è oggi in grado di fare. Dopotutto, è questa fragile, mutevole, fallace capacità di percepire a renderci, prima ancora che umani, vivi.

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