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Le domande di un ponte

Genova, 14 agosto 2018. Il ponte Morandi (Stefano Rellandini, Reuters/Contrasto)

Sul ponte di Genova che è crollato ci sono passato centinaia di volte.
Non abito in quella città, ma ci vado a lavorare tutti gli anni. Così come lavoro a Firenze e Napoli, Milano e Lecce. E poi in tanti paesi che alle volte si attraversano a piedi in pochi passi. Recanati, Panicale, Lumezzane.
Ci passo tornando da Ventimiglia e verso Fosdinovo dove c’è un festival di resistenti.
Ci passo scendendo da Bergamo per andare al teatro Modena di Sanpierdarena dove gli amici dell’Archivolto ci ospitano nella loro foresteria al primo piano e dove vado a fare la spesa al supermercato che ritrovo nella scritta del camion appeso sul moncone del ponte Morandi. Le lettere bianche in campo rosso col fondo verde.
Quel ponte è un balcone.
Sta in mezzo a tanti buchi fatti nelle montagne per chilometri e chilometri. Il verme infinito dell’autostrada striscia tra paesaggi domestici in quel pezzo d’Italia. Proprio in fondo al ponte, in direzione di Livorno, mi ricordo delle casette contadine, pezzetti di orto e qualche anziano con la zappa a pochi metri dalla strada. Come oleogrammi di un passato che non riesce a passare. Testimone del tempo che da quelle parti ha stravolto tutto: case, strade e passioni politiche. Tutto, ma non l’anima dei terrazzamenti.
Il ponte Morandi era un’eccezione.

Penso a noi che viviamo almeno un terzo della vita in movimento

Fino a lì, partendo dalla Francia o dalla Toscana, avevi la sensazione che la natura impervia fosse solo parzialmente penetrabile, ma ti ricordasse costantemente che era sempre presente costringendoti a fare curve su curve per girarle attorno senza poterla scansare mai.
Poi: il ponte!
Un salto in lungo, un’acrobazia.
Leggo sui giornali le dichiarazioni degli esperti.
Ancora non sappiamo nulla, ma fanno ipotesi. Qualcuno dice che il dramma era annunciato. Qualcun altro che l’opera era ambiziosa e il materiale doveva essere manutenuto meglio. Qualcun altro ancora suggerisce che forse la tragedia è da mettere in conto quando si tira su un colosso del genere.
Io non lo so.
Non ho gli strumenti per farmi un’opinione.
E comunque non è questa la mia prima riflessione.
Io penso a me e a tutti quelli che fanno migliaia di chilometri di strada. Che un pezzo della vita se la guardano camminando su quella striscia d’asfalto. Che guidano di notte rubando un po’ d’aria fresca dal finestrino e ascoltando la radio mentre qualcuno più stanco dorme sul sedile accanto.
Che conoscono a memoria gli autogrill, vedono i panini restare identici nella forma e nel nome. Che sanno gli orari per evitare anche la fila al cesso. Che tra colleghi si ritrovano a parlare delle buche sull’E45 e i lavori eterni, dei cento chilometri senza area di servizio sulla Roma-Pescara, degli autovelox sulla Fi-Pi-Li o per quale trattoria vale la pena deviare e perdere un’ora di viaggio.
Ora non penso ai comitati pro e contro, né agli scandali che accompagnano le opere pubbliche.

Genova, 15 agosto 2018. Il ponte Morandi

Io penso a noi che viviamo almeno un terzo della vita in movimento per quel black carpet srotolato su tutta la lunghezza dell’Italia.
Vedo quel moncone di ponte, quel balcone crollato a un passo dal mare.
Lo vedo come una profezia che s’avvera. Come la Natura di Leopardi, magari un po’ più empatica di quella del poeta, che viene a porre domande a noi viaggiatori: “Ma tu dov’è che vuoi andare? E come vuoi davvero arrivarci?”. Ci ricorda che il viaggio non è una retta tra due punti dove è importante solo arrivare, dove quello che sta in mezzo è solo tempo da perdere.
Penso a noi tutti lungo la strada e in particolare a Marco Paolini.
Al suo viaggio che si è inchiodato mettendo il punto a due vite: quella di una donna che s’è interrotta e la sua che s’è rovesciata come un guanto.
Una strada non è solo una questione per politici e ingegneri. Una strada è una visione del mondo.
Non ho delle risposte. Non ce n’ho nemmeno una. Davanti a quel camion sospeso a cinquanta metri d’altezza ho solo domande.
Che mondo sogniamo quando chiediamo a un ingegnere di costruirci un’autostrada a più corsie?
Che mondo reclamiamo quando preghiamo la politica di darci un treno più veloce?Dove desideriamo farci portare da queste strade?

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