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Una proposta per risolvere il problema del gruppo Stato islamico

Una guerrigliera della coalizione Forze democratiche siriane, che combattono contro il gruppo Stato islamico, ad Al Melabiyyah, il 24 novembre 2015. (Rodi Said, Reuters/Contrasto)

Ci sono due comportamenti da evitare in un conflitto. La sterile discussione sulle colpe, perché la realtà è complessa e le accuse non forniscono soluzioni, e la spirale psicologica che porta alla demonizzazione del nemico, che compromette la lucidità. L’attuale situazione di conflitto con il gruppo Stato islamico (Is) sta generando una reazione emotiva collettiva che rischia di offuscare lucidità e razionalità, e di portare disastri. Provo a offrire, da cittadino, un contributo di serenità alla discussione, ricordando alcuni fatti chiave, e proponendo una direzione concreta per la soluzione.

Il primo fatto

L’Is è utile a molti. Questo spiega un paradosso: cioè, che l’Is resiste contro un’alleanza che comprende due superpotenze planetarie, la Francia, la Siria, l’Iraq, l’Iran, la Turchia, l’Arabia Saudita, i curdi e Hezbollah. Nessuno potrebbe davvero resistere militarmente a una simile coalizione, se non fosse perché la sua esistenza fa comodo. Vediamo alcuni esempi.

Senza l’Is, Assad non sarebbe al potere, perché la rivolta in Siria aveva il supporto dell’occidente. Ma il gruppo Stato islamico fa paura e Assad è stato graziato. Assad, infatti, bombarda altri ribelli, poco l’Is.

La Turchia è preoccupata dai curdi e non vede di buon occhio le vittorie curde sull’Is e quindi permette che il petrolio dell’Is sia esportato attraverso la Turchia.

Israele teme un mondo sciita filoiraniano alle porte, ora che l’Iraq sta scivolando in quella direzione: uno stato cuscinetto sunnita lo evita. Non a caso, i mezzi d’informazione arabi accusano il gruppo Stato islamico di attaccare tutti meno Israele.

La Russia bombarda, non l’Is come aveva annunciato, bensì i ribelli siriani appoggiati da statunitensi e turchi, suscitando proteste vivaci fino all’abbattimento di un suo aereo.

L’Is è stato finanziato da Qatar e Arabia Saudita: sostiene l’islam wahabita (o salafita) che ha portato alla loro formazione e ne è tutt’ora l’ideologia; la sharia, che l’Is vuole applicare, in questi stati è già legge.

L’oleodotto progettato attraverso la Siria, che avrebbe danneggiato gli stati del Golfo, è bloccato dall’esistenza dell’Is. La monarchia saudita si è inquietata alla proclamazione del califfato, che mette in dubbio la sua legittimità, e ha bruscamente sospeso il suo appoggio economico nel 2013, ma l’élite saudita appare divisa: l’Is è un risultato del grande sforzo di soft power che Riyadh esercita da anni per diffondere, con le scuole coraniche, l’islam wahabita.

Poi ci sono gli Stati Uniti. L’Is si è affermato nel silenzio americano finché non è arrivato a lambire territori curdi. Quasi a dire “lì, no”. L’Iraq, liberato dagli statunitensi, sta scivolando nelle mani dell’Iran; gli aveva chiesto di andarsene, ora li richiama per proteggersi dall’Is.

Se volesse abbatterlo, Washington ne avrebbe i mezzi, come li ha avuti per abbattere Saddam Hussein, di gran lunga più potente. Barack Obama la settimana scorsa ha osservato, ragionevolmente, che l’invio di truppe di terra porterebbe a un’occupazione senza fine. Oppure, in altre parole, al problema attuale: chi comanda in Mesopotamia? In teoria, tutti contro il gruppo Stato islamico; in pratica fa comodo a molti.

Il secondo fatto

L’Is è il prodotto di un’alleanza tra estremisti wahabiti da un lato e, dall’altro, la borghesia sunnita che dominava con il partito Baath, la struttura di potere di Saddam Hussein. Non tener conto della seconda componente è un errore. I primi vengono dal fondamentalismo religioso eversivo, i secondi dal nazionalismo socialista arabo laico. Lo stesso Saddam Hussein, un laico, negli ultimi proclami aveva chiamato la religione a difesa del suo mondo. Un errore oggi riconosciuto da tutti è stata la “debaathizzazione” radicale dell’Iraq. I quadri dell’amministrazione statale e dell’esercito, la borghesia irachena, decine di migliaia di famiglie, molte armate, si sono trovate sulla strada, senza stipendio, difesa, dignità. I tentativi americani di evitare la settarizzazione sono falliti.

Ne è seguita la strisciante insurrezione sunnita. Aree come Fallujah hanno combattuto duramente l’invasione statunitense, poi sono diventate il cuore dell’insurrezione contro il nuovo governo. Che in Iraq ci sia una guerra civile non c’è dubbio, e questo non c’entra con il radicalismo islamico. Anzi, all’inizio sembrava fossero gli sciiti vicini al radicalismo religioso, quando il giovane governo iracheno pullulava di religiosi sciiti.

La violenza dello scontro ci ha gettato nell’usuale allucinazione prodotta dai conflitti: il nemico si identifica con la manifestazione del male

Curiosamente, l’occasione della svolta islamica dell’insurrezione è stata l’indignazione sollevata dagli orrori della prigione di Abu Ghraib nel 2003. Il governo statunitense ha reagito aprendo un campo di detenzione modello: Camp Bucca, che poteva contenere fino a 24mila prigionieri con molto spazio di manovra e interazione. Organizzavano classi e insegnavano su argomenti come letteratura e religione, ricevevano visite. I responsabili del campo avevano lanciato l’allarme che il risultato era la radicalizzazione dei prigionieri. Camp Bucca ha rappresentato il capitolo iniziale dell’Is. I suoi leader – Abu Bakr al Baghdadi, Abu Muslim al Turkmani, il comandante militare Haji Bakr – si sono incontrati e organizzati durante la prigionia. Ma è stato soprattutto l’occasione per la fusione delle due anime dell’insurrezione. I jihadisti hanno fornito la forza ideologica, gli ex baathisti le capacità militari, organizzative, burocratiche e il sostegno della popolazione sunnita. La storia insegna che non esiste insurrezione senza supporto popolare.

Un soldato curdo peshmerga punta un missile anticarro contro una postazione dei jihadisti del gruppo Stato islamico vicino a Sinjar, in Iraq, il 15 novembre 2015.

La presenza della classe dirigente irachena nell’Is rende comprensibile come possa funzionare. La propaganda è dominata dal radicalismo, ma la struttura dello stato è la rete di relazioni tribali che domina la politica della Mesopotamia: il mondo sunnita che rivendica il potere. Solo tenendo presente questo aspetto dell’Is si può pensare a una soluzione.

Il terzo fatto

L’uso dell’orrore. Per capire, credo sia cruciale un’osservazione: c’è una sconcertante somiglianza tra i termini usati in occidente per descrivere il gruppo Stato islamico e quelli usati dall’Is per descrivere l’occidente: abominio, perversione, delirante, demoniaco, degenerato, scellerato, barbarico, inumano, eccetera. L’occidente ha le sue pecche, ma non è così abominevole.

La domanda da porsi è se l’immagine dell’Is in occidente non sia altrettanto irrealistica. Basarla su video, proclami e numero di morti è come giudicare l’occidente unicamente dai droni che uccidono civili: l’occidente è ben altro. L’uso dell’orrore non è appannaggio dell’Is. È comune, purtroppo, in tutte le guerre. Alzare il tono per spaventare il nemico è tattica orrenda ma efficace. Bruciare villaggi al napalm in Vietnam aveva lo stesso scopo: terrorizzare, affermare la superiorità della forza. Qualcuno ricorda le file di impiccati che oscillavano al vento lungo la strada per Bassano, durante la guerra civile italiana nel 1944-45?

La violenza dello scontro ci ha gettato nell’usuale allucinazione prodotta dai conflitti: il nemico si identifica con la manifestazione del male. Ci ripetiamo l’un l’altro quanto è cattivo, coltiviamo dettagli raccapriccianti che confermano l’emozione. Minacce reciproche sempre più virulente (“annientiamo lo Stato islamico!”, “distruggiamo l’occidente!”) e demonizzazione reciproca sono il consueto triste percorso psicologico di ogni conflitto, tra individui o tra popoli. Per i giovani musulmani che si fanno adescare dalla propaganda dell’Is succede la stessa cosa, simmetrica: l’occidente diventa diabolico. Stando al Washington Post, le ragazze scappate dall’occidente per combattere nelle file del gruppo Stato islamico sono più di 500 (l’Is ha una brigata femminile: la brigata Al Khansaa).

Parlare con i nemici è sempre cosa difficile. Ma è la cosa giusta

Questo non significa ovviamente mettere occidente e Is sullo stesso piano. Non lo sono per nulla, e l’occidente rimane fedele ai propri valori. Ma per cercare soluzioni, la questione non è il giudizio: è non farsi accecare da meccanismi psicologici perversi.

O dal terrore sciocco. Resta infinitamente più facile in occidente morire in un incidente stradale che in un attentato terroristico. L’Is è un problema perché produce terrorismo e destabilizza la regione, non certo per la sua pericolosità militare: non è riuscito a tenere Kobane davanti ai curdi, figuriamoci se impensierisce militarmente la Nato. Sono pochissime le testimonianze dirette sul vasto territorio controllato dall’Is. Gli straordinari reportage di Francesca Borri ci danno qualche elemento per capire, poco altro.

La vita di dieci milioni di persone potrebbe essere molto meno diabolica dell’immagine mediatica. Nelle zone dove si combatte, e per le minoranze opposte ai sunniti, la situazione deve essere dura, ma nelle vaste zone sunnite che hanno appoggiato l’Is, siamo sicuri che ci sia l’orrore dipinto, senza saperne niente, dai nostri mezzi d’informazione? Credo sia facile invece immaginare quello che la gente vuole, perché è la stessa cosa che tutti vogliono: pace. La fine della guerra. La pace che Saddam Hussein, sunnita, garantiva.

Normalizzare lo Stato islamico

Alla luce di queste considerazioni, mi sembra che esista una direzione evidente per risolvere il problema dell’Is: normalizzarlo. Spostarlo dalle mani estremiste, favorendo la normale evoluzione dei movimenti insurrezionali. All’interno del gruppo Stato islamico esiste la componente dell’ex Baath che ha il supporto della popolazione.

Il punto di arrivo del doloroso processo in corso mi sembra possa solo essere l’evoluzione dell’Is in uno stato sunnita, accanto a uno stato curdo al nord (che di fatto già esiste anche se nessuno lo dice), uno stato sciita all’est, e una Siria meno vasta, difesa dalla Russia. E la gente che vive in pace. La frantumazione dell’Iraq è preconizzata da tempo da molti. I confini attuali sono artificiali, non rispettano il sentimento popolare. L’unico motivo per non modificarli è solo quello di evitare conflitti, ma quando si è in guerra da anni, questo motivo cade. Per arrivare a questo, la sola cosa possibile è spingere l’Is verso la normalizzazione.

Parlare con i nemici è sempre cosa difficile. Ma è la cosa giusta. L’Is è più debole di come lo si dipinge, la sua forza è solo la poca voglia altrui di andarlo ad abbattere. Dipingerli come mostri irrazionali è solo miope. Se si sono proclamati “stato” è perché la loro aspirazione è uno stato. Nel momento in cui intravedessero la possibilità di realizzarlo, la carica eversiva si affievolirebbe e i deliri millenaristici perderebbero peso.

L’occidente può continuare a bombardare, ma i bombardamenti, come ripetono i vertici militari, non portano a nulla. Nessuno ha voglia di invadere di nuovo la Mesopotamia, per riaprire il problema. Penso sia necessario parlare con l’Is. L’alternativa è la guerra senza fine. Dolore e nessuna visione per il futuro.

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