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Un leader mediocre per Cuba

Il nuovo presidente cubano Miguel Díaz-Canel insieme al presidente uscente Raúl Castro all’Avana, Cuba, il 19 aprile 2018. (Adalberto Roque, Afp)

Il curriculum del nuovo presidente cubano Miguel Díaz-Canel è di un’insultante mediocrità, come quelli di tutti i politici nati sull’isola dopo il 1959. Si è laureato in ingegneria elettrica nei primi anni ottanta, ha lavorato nelle forze armate e poi, con la rivoluzione sandinista già al potere, ha partecipato a una missione internazionalista in Nicaragua. A 33 anni, età in cui Fidel Castro entrava all’Avana, Díaz-Canel era a stento asceso alla carica di segretario del Comitato nazionale della gioventù comunista.

Di fatto, con Fidel al potere, il nume tutelare degli uomini nuovi del socialismo, Díaz-Canel probabilmente non sarebbe mai andato oltre il posto di secondaria importanza che gli hanno permesso di occupare per quindici lunghi anni: quello di sindaco comunista di una sgangherata e polverosa provincia del paese. Prima a Villa Clara, al centro dell’isola, dal 1994 al 2003, e poi fino al 2009 a Holguín, nel nordest, ancora più lontano dall’Avana e da Dio.

Fidel amava circondarsi di giovani che credeva intelligenti, che però alla fine hanno dimostrato di non esserlo tanto, perché la prima cosa che chiunque facesse temporaneamente parte della cerchia di uomini di fiducia del comandante doveva sapere, se ancora nutriva un po’ di amore per se stesso, era che non poteva mostrare troppa autonomia intellettuale, sagacia diplomatica o qualsiasi altra forma di capacità di giudizio che lo facesse apparire un potenziale rivale.

Negli ultimi cinque anni Díaz-Canel è riuscito a non dire niente di memorabile

Con Raúl Castro la questione è stata risolta in anticipo. Nessuno che sia in grado di fare un discorso decente, senza confondersi o dimenticare a metà strada quello che è stato mandato a dire, ha la possibilità di far parte della corte tecnocratica e in gran parte analfabeta del fratello minore. Un curriculum come quello di Díaz-Canel, che non dice molto, o che dice solo di essere uno che ha capito il valore della sottomissione, per Raúl era perfetto.

Nel 2009, quando Fidel era convalescente, Raúl mandò a prendere il suo successore e gli affidò il ministero dell’istruzione superiore, posto in cui Díaz-Canel, per quanto ne sappiamo, non ha fatto nulla che valga la pena di ricordare.

Nel 2013 Díaz-Canel è stato eletto primo vicepresidente del consiglio di stato, e nel corso degli ultimi cinque anni – che non sono stati anni qualsiasi perché sono stati quelli della riforma dell’immigrazione, della ripresa dei rapporti diplomatici con gli Stati Uniti, della visita di Obama, della morte di Fidel Castro – è riuscito a non dire niente di memorabile.

Il torpore dell’obbedienza
Per molti anni, sono stati tanti quelli che hanno fallito al colloquio di lavoro per il posto di sostituto, o hanno creduto di essere già amministratori della proprietà personale in cui i Castro avevano trasformato Cuba, mentre stavano solo facendo un periodo di prova. Quindi si tenderebbe a pensare che Díaz-Canel abbia una qualche virtù segreta che gli altri non hanno, che abbia capito qualcosa che nessun altro intorno a lui ha saputo capire e che se lo sia tenuto per sé.

Ma pensare questo è un errore, perché Cuba è un paese senza nessun mistero politico da decifrare. Il motivo per cui Díaz-Canel adesso è presidente è che rappresenta meglio di chiunque altro il racconto nazionale della sopravvivenza fisica che, come sanno tutti quelli che hanno vissuto a Cuba, è un racconto di immersione cosciente nel torpore dell’obbedienza.

Lo ha detto chiaramente Raúl, nel momento in cui si è insediato il suo pupillo: “ È nato a Villa Clara, dove è rimasto abbastanza, perché era un territorio che conosceva bene; e soltanto in seguito è stato inviato in una delle grandi province orientali, Holguín, come abbiamo fatto con una dozzina di giovani, la maggior parte dei quali sono poi arrivati a far parte dell’Ufficio politico, ma non siamo riusciti a completare la loro preparazione e lui è l’unico sopravvissuto”.

Nel 2017, è trapelato il video di una conferenza dei quadri del Partito comunista nella quale Díaz-Canel attacca vari mezzi di comunicazione indipendenti e dichiara che intende chiudere la piattaforma digitale della rivista OnCuba. “Scoppi pure lo scandalo che deve scoppiare. Dicano pure che censuriamo”, ha concluso, “qui tutti censurano”. Insomma Díaz-Canel sta rappresentando il ruolo di uomo forte in un momento chiave, ma non sembra molto a suo agio nel personaggio. Non spaventa nessuno. Attorniato com’è dai militari, dai veri mastini, cosa che lui non è.

Diaz-Canel è un politico pusillanime, è questa potrebbe essere un’ottima notizia per Cuba. Anche la sua mediocrità è di buon auspicio. La mistica e la crudeltà dei leader eroici hanno spinto il paese in questo vicolo cieco.

Qualcuno ancora ricorda che quando era sindaco di Villa Clara Díaz-Canel autorizzò i primi spettacoli di travestitismo a Cuba e permise alcuni tentativi di giornalismo d’inchiesta nella provincia. Inoltre, girava la città in bicicletta, vestiva in modo informale e ascoltava i Beatles, tutti dettagli che lo facevano sembrare una sorta di liberale moderno tra la fauna ammuffita dei dirigenti comunisti.

Oggi, non sapendo a che cosa attaccarsi, i cubani potrebbero pensare che questo Díaz–Canel sia rimasto per vent’anni in naftalina, rappresentando al tempo stesso sia il tipo di dirigente docile che il castrismo sperava che fosse, sia uno che aspirava a una promozione.

In qualsiasi caso, difficilmente la sua strategia di sopravvivenza funzionerà ancora. Quello che le circostanze storiche faranno di lui, quanto lo sballotteranno, non lo possiamo ancora sapere, ma il nuovo presidente cubano è quello che è. Come in tutti i paesi orwelliani, se dissimuli per anni, alla fine ti trasformi nella persona che hai fatto finta di essere.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano spagnolo El Diario.

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