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I due poeti che raccontano la Siria attraverso l’amore e l’esilio

Il poeta siriano Faraj Bayrakdar a Stoccolma, Svezia, dicembre 2007. (Opale/Leemage/Mondadori portfolio)

“Se trovi qualcuno che ti ama come il poeta siriano Nizar Qabbani ha amato le sue donne, sei a cavallo”, ho pensato mentre leggevo Le mie poesie più belle, la raccolta pubblicata quest’anno da Jouvence (traduzione dall’arabo di Silvia Moresi e Nabil Salameh).

Amami senza preoccupazioni
e perditi nelle linee della mia mano.
Amami per una settimana, per qualche giorno
o solo per qualche ora…
non mi interessa l’eternità.

Non c’è scampo da questo amore: emerge da ogni singola pagina di questo volumetto che raccoglie trenta delle poesie predilette da Nizar Qabbani, poeta e diplomatico che nacque a Damasco nel 1923 da una famiglia della borghesia damascena, si innamorò, fu riamato, girò il mondo e morì a Londra nel 1998.

Le sue poesie sono state la colonna sonora di chissà quante storie d’amore nel mondo arabo. Mai nessuno prima di lui, nella poesia araba, aveva cantato così l’amore e le donne. Lo ricorda Silvia Moresi nell’introduzione, quando cita lo scrittore sudanese Tayeb Salih, uno dei più importanti autori di lingua araba, che in un’intervista disse: “Gli amanti non hanno conosciuto il vero significato dell’amore finché non hanno letto le poesie di Qabbani”.

Come ciondoli di una collana preziosa, i trenta componimenti dell’antologia, che riporta in vita i versi di Qabbani a quarant’anni dall’ultima traduzione italiana, ci fanno entrare nell’animo sensibile e innamorato di un poeta che mise la donna al centro della sua opera, la rese protagonista e la liberò dalle maglie della società borghese levantina di inizio secolo. Donna sensuale, dai seni traboccanti di promesse (“I tuoi seni sono due rosse sorgenti di delizie che incendiano il mio sangue”) e dalla pelle bianca e levigata, ma anche compagna fedele e madre affettuosa. E non solo: la donna di Qabbani fu anche, per la prima volta nella poesia araba, colei che decise di abortire un figlio non voluto dal padre (“Abortirò…/non voglio per lui un padre così spregevole!), e la protagonista di una storia saffica (“Una storia d’amore che non si può narrare/perché per l’amore non c’è spiegazione”). Cantando l’amore libero, passionale ed erotico, Qabbani fu, per la sua generazione e per quelle successive, un poeta rivoluzionario. Fu anche un poeta impegnato: si scagliò contro la società araba della sua epoca, accusandola di essere passiva e dedicò versi dolenti e splendidi al suo oriente, lacerato da sconfitte e abbandoni.

Esilio e lontananza
Qabbani non è l’unica voce siriana proposta quest’anno al lettore italiano per la prima volta. Per una particolarissima coincidenza editoriale, ha visto la luce anche la traduzione di un altro poeta siriano, più contemporaneo: Faraj Bayrakdar.

Se Nizar Qabbani è stato il cantore dell’amore, Faraj Bayrakdar, dopo aver passato 14 anni nelle prigioni di Hafez al Assad, è il poeta dell’esilio e della lontananza. Dalla casa, dal paese, dagli affetti.

Il luogo stretto (nottetempo, traduzione dall’arabo di Elena Chiti) è la prima raccolta di poesie composte dal poeta nei primi anni di prigionia. Bayrakdar viene arrestato tre volte dalle autorità siriane: due negli anni settanta, perché dirigeva una rivista letteraria che promuoveva giovani poeti siriani, e la terza nel 1987 in quanto membro del Partito di azione comunista. Dopo un anno di detenzione, scandito da torture e intimidazioni, il poeta viene trasferito nella prigione di Palmira, dove sopravvive a cinque anni di isolamento. Resta senza processo fino al 1993, quando viene condannato a 15 anni di lavori forzati. Esce di prigione solo nel 2000, grazie a una campagna internazionale, coordinata da Amnesty international e da Pen international, che da anni chiedeva il suo rilascio, nonostante per le autorità siriane Faraj Bayrakdar “non esisteva”.

Negli anni di carcere il poeta scrive per sfuggire all’oblio, che è il più temibile compagno di un detenuto. Come un novello hakawati (cantastorie), affida alla memoria dei suoi compagni di cella – i suoi rawi, recitatori di poesie – i versi che compone, impossibilitato a scriverli su carta. Solo dopo sei anni di prigionia vede la famiglia per la prima volta e consegna di nascosto alla figlia di 10 anni i primi versi scritti sulla carta delle sigarette. Il luogo stretto è la raccolta di quei versi clandestini: si tratta di poesie accartocciate su loro stesse, dolenti e ruvide allo stesso tempo. Immagini plastiche e metafore si susseguono mentre il poeta tenta di raccontare la prigionia, la solitudine, il tormento:

Siamo tornati a pettinare lettere
dagli occhi disfatti
di dolore per un silenzio maestoso
pugnalato in solitudine.

Il tempo immobile del carcere è scandito solo dalle rarissime visite della famiglia, ma quando le “finestre del carcere chiudono gli occhi/le pareti si coprono di/un colore di estremo pudore”. Solo la poesia annuncia al poeta che la vita continua. È una liberazione: “È l’esercizio più pieno della libertà”. Senza poesia, il poeta non potrebbe resistere alla disumanità del carcere e di chi lo popola e alle tentazioni di una morte che lo stato vorrebbe arrivasse in fretta, così da togliere di mezzo un “nemico” scomodo.

La traduzione di questi due volumi arriva in un momento storico delicato, in cui il mondo guarda la Siria morire senza davvero vederla. Quel “paese della gente semplice”, in cui “la gente lascia le proprie botteghe/e si incammina per incontrare la luna”, vagheggiato da Qabbani. Quel paese, scrive Bayrakdar, che non è – non deve più essere – una “fossa comune/ma una nazione”.

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