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A Roma non è questione di degrado e di decoro

Il sindaco Ignazio Marino nel suo ufficio, Roma, il 17 luglio 2015. (Nadia Shira Cohen, The New York Times/Contrasto)

Nelle ultime settimane il sindaco di Roma Ignazio Marino e la sua amministrazione sono al centro di una campagna giornalistica martellante: non passa giorno che non escano articoli sulla capitale (addirittura sulla stampa internazionale ormai) che mostrano il “degrado della città”, che affermano che “la situazione è insostenibile”, eccetera.

I grandi quotidiani nazionali si sono dotati in pianta stabile di sezioni appositamente dedicate a questo tipo di denuncia – marciapiedi pieni di spazzatura, autobus assaltati da passeggeri rabbiosi, cantieri lasciati nell’abbandono, uomini che pisciano per strada, giardinetti ricettacoli di rottami, palazzine fatiscenti, tombini intasati – che ha praticamente occupato quasi tutto lo spazio della cronaca locale.

Pur d’inseguire acriticamente l’onda di quell’indignazione di pancia che da anni viene cavalcata da piccoli siti di pseudogiornalismo come Romafaschifo e decine di blog simili, ora anche i mezzi d’informazione mainstream rilanciano: invitano i lettori a mandare segnalazioni e foto che documenterebbero lo stato di declino assoluto della città. Ognuno può ritrarre il suo angolo di cartacce e pensare di aver compiuto il suo gesto di mobilitazione civica.

Marino dove sei?

Su questo basso continuo di lamentele si innestano i temi del giorno – può essere la protesta contro i profughi di Casale San Nicola, oppure la tensione quotidiana contro lo sciopero bianco dell’Atac. Temi che, nonostante siano molto eterogenei, vengono modulati nel racconto secondo un unico tono: l’esasperazione. “Marino dove sei?” è il grido che sembra risuonare come un ronzio di fondo dal ventre molle della cosiddetta cittadinanza: sui manifesti in giro per strada, nelle timeline dei social network, ma anche nelle dichiarazioni ufficiali della politica nazionale che ha accettato di accordarsi a questo coro.

Nessuno si stupisce per esempio, nel risuonare del clamore vuoto dell’antipolitica, che un giorno sì un giorno no, il presidente del consiglio Matteo Renzi minacci un’amministrazione regolarmente eletta.

Ma è così: quando si descrive una città come perenne preda dell’esasperazione, ecco che il terreno per un’analisi politica più razionale, più efficace, anche più dura, è completamente bruciato. A cosa e a chi serve tutto questo?

Turisti al Colosseo, Roma, il 17 luglio 2015.

La retorica del “degrado” e quella speculare del “decoro” sembrano essere diventate le uniche possibilità di discutere dell’amministrazione urbana.

Non è difficile considerare invece come degrado e decoro siano due pseudoconcetti, due termini che riguardano la percezione della città e non il suo reale funzionamento. Dall’altra parte è anche evidente constatare – come ad esempio mostra il libro fondamentale di Tamar Pitch Contro il decoro (Laterza 2013) – che fare politica in nome di queste retoriche, opposte e complementari, occulti la mancanza di interventi pubblici nei confronti delle classi povere e rimuova tutte le altre questioni strutturali: dalla corruzione, al clientelismo, alle diseguaglianze materiali, a una criminalità che, come sappiamo dall’inchiesta Mafia capitale, è addirittura di matrice mafiosa.

E non basta: parlare della crisi politica romana dibattendo di degrado e decoro non aiuta a comprendere come questa non sia soltanto una questione locale, ma rappresenti un esempio chiaro della crisi dell’amministrazione urbana in generale oggi.

Il prodotto di risulta è che sul piano della diagnosi questo tipo di discorso crea un senso di diffusa ma molto sterile recriminazione, riducendo spesso l’informazione a impressionismo, e alimentando un’irritazione rituale che è solo il feticcio del civismo.

Se si pensa a Roma come a una città sull’orlo del baratro, le sole scelte possibili saranno quelle emergenziali

Ma è sul piano della prognosi che i danni sono anche peggiori. Se si pensa a Roma come a una città sull’orlo del baratro, le sole scelte possibili saranno quelle emergenziali. E quindi: commissariamenti ufficiali o informali, o – per parte avversa – il vittimismo da parte dell’amministrazione pubblica e la conseguente deresponsabilizzazione.

Marino si propone come cavaliere solitario, paladino di una battaglia contro i poteri forti, e per resistere cerca alleanze e soluzioni “straordinarie”, ossia improvvisate. Per mostrare il pugno di ferro si circonda di uomini come l’ex sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo Alfonso Sabella, assegnandogli prima un assessorato di cui non si sentiva la mancanza come quello alla legalità e poi la delega al litorale di Ostia. Gli risponde il prefetto Franco Gabrielli che – in una competizione a chi è più poliziesco – s’inventa due viceprefetti ad hoc per il decoro delle zone Termini ed Esquilino, i quali escogitano le strampalate ipotesi di “ordinanze antipetulanza dove c’è questo pressing sui turisti, che non è bello”.

Dello stesso tenore è pure l’uscita di qualche giorno fa del sindaco Marino, che dopo venti giorni di disservizi dell’Atac, pur di non soccombere al ricatto dello sciopero bianco degli autisti, ha lanciato lo slogan: privatizziamo!

Senza considerare cosa vorrebbe dire avere a Roma un’azienda dei trasporti privata:

a) un arbitrio ingiustificato nella gestione di un servizio pubblico: per fare un esempio, chi investirebbe nei bus notturni tra Casalotti e Boccea invece che nelle linee di lusso per il centro storico?

b) un potere di ricatto incontrollabile: oggi sono i sindacati corporativi a semiparalizzare la città, ma se questo potere lo avesse un privato, avrebbe veramente la facoltà di fare una sorta di golpe bianco cittadino.

c) la difficoltà di gestire una società mista (pubblica-privata), un modello che si è dimostrato un disastro in molte altre esperienze in Italia.

Ma qui stiamo già diradando la cortina fumogena che avvolge le questioni romane attraverso la lente della politica. Mentre il contesto di questi giorni è segnato solo da questa nebbia rabbiosa. Un contesto che ricorda il 2008.

Allora non era il degrado il male di Roma, ma l’“insicurezza”: i giornali traboccavano di notizie di scippi, furti, stupri, accoltellamenti. La campagna elettorale fu intossicata da questo senso di pericolo incombente. Le strade della capitale venivano descritte come quelle di una Gotham City tropicale. L’esito fu l’elezione di Gianni Alemanno a sindaco e cinque anni di cattivissima gestione della cosa pubblica, di mancato sviluppo, e di istituzionalizzazione di un sistema di corruttela informale – non solo in seno al centrodestra al governo della città.

Il rischio adesso è un altro: la delegittimazione prima della giunta Marino e poi della ragione pubblica in sé.

La categoria del degrado si riferisce all’apparenza di una città. E la presunta cura, il decoro, riguarda anche questa la superficie.

La ‘riparazione’ che occorre a questa città non è un belletto, ma una cura radicale

Ieri l’attore Alessandro Gassmann ha promosso su twitter e facebook la campagna #Romasonoio: “Noi romani”, ha scritto, “dovremmo metterci una maglietta con su scritto ‘Roma sono io’, armarci di scopa, raccoglitore e busta per la mondezza, e ripulire ognuno il proprio angoletto di città”. Marino in serata ha lodato l’iniziativa.

È certo sbagliato non vedere la buona fede e la buona volontà di Gassmann. Al tempo stesso però andrebbe sottolineato che le iniziative di governo dal basso dovrebbero rivendicare – per non cadere nelle critiche di essere delle forme di autosfruttamento o di supplenza – una cessione di sovranità, una possibilità di amministrazione condivisa.

È quella prospettata per esempio dal regolamento dei beni comuni elaborato dal Labsus (la giunta Marino lo dovrebbe adottare quanto prima), che capitalizza anni di recente e qualificatissima riflessione sui beni comuni nel governo del pubblico. Si tratta di idee di politica e di giurisdizione amministrativa molto avanzate, che purtroppo nel dibattito italiano vengono discusse con toni da burletta.

Ma proviamo a ragionare sul piano del fenomeno, della percezione, del simbolico.

Un paio di anni fa sono usciti due film di successo che raccontavano Roma come se fossero due città diverse. La grande bellezza e Sacro Gra rappresentavano entrambi dei luoghi fuori dal tempo che riproducevano due immaginari speculari, quello felliniano e quello pasoliniano. In un caso, una città eternamente decadente di chiese barocche, palazzi favolosi, terrazze che guardano al sole morente dietro al Colosseo; nell’altro, un arcipelago di solitudini irriducibili imprigionate nelle borgate mutate oggi in quartieri dormitorio accanto ai centri commerciali lungo il Grande raccordo anulare.

Questa doppia lettura polarizzata descrive bene una condizione di fatto dell’urbanistica romana: la divisione tra un centro storico sempre meno abitato, sempre più a uso turistico e istituzionale, e quello sprawl che ancora non si è riuscito a emancipare dalla cementificazione selvaggia prodotta da almeno tre generazioni di palazzinari.

Fare politica a Roma in nome del degrado e del decoro vuol dire non aver presente che la “riparazione” che occorre a questa città non è un belletto, ma una cura radicale. Fatta di trasformazioni profondissime, infrastrutture serie, investimenti massivi, e soprattutto visione politica e scelte di lungo respiro, che si giocano sui trasporti, sui rifiuti, sul consumo del suolo.

Proviamo a porci degli interrogativi seri, e non domande pleonastiche che servono solo a confermarci nelle nostre inutili retoriche.

Non è ovvio, per esempio, che la condizione di sofferenza di Roma sia il prodotto della creazione di aziende partecipate che sono state il brodo di coltura del clientelismo? Come dimenticare che le politiche di austerità hanno sempre di più svuotato i fondi a disposizione della giunta per attività che non fossero di emergenza: tutto il settore cultura, per esempio, dalle biblioteche ai teatri, pesantemente sottofinanziato?

Immaginare di salvare Roma eliminando la sporcizia dal centro storico vuol dire, nel migliore dei casi, radicalizzare questa divisione tra un’immagine turistica – che serva come fondale per qualche produzione hollywoodiana – e una città reale – che non riesce per esempio a trovare una vocazione industriale.

Nel peggiore dei casi, significa invece preservare l’accesso di alcuni luoghi a un’élite sempre più ristretta e abbandonare il resto di questa città alle sue spinte peggiori: il razzismo, il neofascismo, la porosità alle mafie.

Chi vuole affossare Marino dovrebbe pensarci bene. Da parte sua anche il sindaco dovrebbe capire com’essere permeabile a un reale desiderio di partecipazione dal basso, prima di finire la sua esperienza politica piena di promesse sotto i colpi della demagogia.

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