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L’inutile riforma della Rai di Matteo Renzi

La sede della Rai di viale Mazzini, a Roma. (Cristiano Laruffa, Lapresse)

Il 6 e l’8 maggio del 1966 andava in onda in due puntate sulla Rai il film per la tv, prodotto dalla stessa Rai, di Liliana Cavani Francesco d’Assisi: uno sceneggiato in bianco e nero – in cui il santo era interpretato da un giovanissimo Lou Castel – che è un piccolo capolavoro (qui c’è una scena).

Liliana Cavani nel 1966 ha 33 anni, è alla sua prima regia, non è credente; Lou Castel ha fatto solo un film scandaloso l’anno prima, I pugni in tasca, di un altro esordiente, Marco Bellocchio.

Se oggi si vuole parlare di Rai bisognerebbe aver presente questo esempio tra i mille: che oggi le condizioni per realizzare qualcosa come Francesco della Cavani non esisterebbero.

Le motivazioni sono varie ma anche semplici: dagli anni ottanta, la concorrenza delle tv commerciali ha spinto la Rai a inseguire il pubblico abbassando la qualità della sua programmazione; moltissime delle produzioni che arrivano sui canali Rai sono appaltate a società esterne.

La riforma della Rai che sta passando in parlamento si rivelerà inutile

Ma c’è un ulteriore aspetto.

Facciamo un altro esempio: mettiamo a confronto la riduzione televisiva della Certosa di Parma di Stendhal fatta da Mauro Bolognini nel 1982 con Andrea Occhipinti che interpreta Fabrizio del Dongo e Gianmaria Volontè che fa il Conte Mosca, e quella di Cinzia Th Torrini del 2011 con Rodrigo Guirao Díaz nei panni di Fabrizio del Dongo. La prima è un gioiello con la sceneggiatura di due maestri come Enrico Medioli e Jean Gruault; la seconda un polpettone con toni enfatici da soap-opera.

Da una parte c’è il desiderio di educare il pubblico introducendolo a un capolavoro della letteratura mondiale, dall’altra il tentativo – anche fallito – di fare un buon prodotto d’intrattenimento che prescinda dalla sua matrice letteraria.

Delega in bianco al governo

La riforma che sta passando in questi giorni in parlamento è una riforma molto discutibile ma che soprattutto si rivelerà inutile, perché presume che il problema della televisione pubblica sia gestionale, e non culturale.

Questo misconoscimento si vede da come la discussione sulla riforma della Rai non sia per nulla entrata nel dibattito pubblico: sembra, nel migliore dei casi, una questione da addetti ai lavori, se non un tema politico irrilevante, da agenda estiva.

Come molte riforme del governo Renzi (vedi quella del senato e della Buona scuola), s’immagina di risolvere i problemi strutturali affidandosi a una guida forte: in questo caso ci sarà un’amministratore delegato invece di un direttore generale, con molti più poteri decisionali (dieci milioni di euro di fondi, per esempio, contro i 2,5 a disposizione del direttore generale oggi).

Come molte riforme del governo Renzi, ha un testo talmente snello e indicazioni così vaghe che di fatto è una specie di delega in bianco all’azione formale e informale dell’esecutivo nei prossimi mesi e anni.

Come molte riforme del governo Renzi, non tiene conto del contesto in cui si inserisce, e in questo contesto uno dei nodi principali di cui da anni si discute è, per esempio, il conflitto d’interessi. Nelle primarie del Partito democratico del 2012 il futuro presidente del consiglio rivendicava l’urgenza di una legge in merito.

Anche in questa legge il nodo viene semplicemente ammorbidito ma non certo sciolto – prova ne sia che le nomine del prossimo consiglio di amministrazione saranno fatte con la legge Gasparri, molto vituperata a suo tempo dallo stesso Renzi.

Cosa significa servizio pubblico

Se questi sono i limiti seri di una riforma-non riforma, il suo buco più grande è quello di non aver ripensato la Rai come un’industria della ricerca e di eludere una riflessione su cosa vuol dire oggi fare servizio pubblico.

Il modello della Bbc evocato anche in questi giorni dal presidente del consiglio per il suo ideale di indipendenza, è un orizzonte molto distante a cui guardare e soprattutto per lo iato di credibilità tra la televisione britannica e quella italiana – per dire, il sito della Bbc è uno dei primi per visitatori nel Regno Unito, il sito della Rai in Italia viaggia intorno al centesimo posto.

E non è solo una questione anagrafica: l’età media del pubblico televisivo della Rai è oltre i sessant’anni – è praticamente così anche per la Bbc. La vera crisi riguarda l’obsolescenza creativa, la mancanza di una classe intellettuale all’interno della Rai (salvo pochissime eccezioni), la virtuale inesistenza di una relazione tra formazione universitaria e televisione, e la bassa qualità di competenze di molti dirigenti.

L’impressione che si ha spesso guardando la televisione è che la programmazione sia realizzata per un paese con il più alto tasso di videodipendenti d’Europa – quasi il 90 per cento la guarda tutti i giorni, più del 10 per cento non usa nessun altro mezzo di informazione (nemmeno la radio o internet) – che spesso sono persone che non possono permettersi altri consumi culturali: redditi bassi, bambini, anziani, disabili…

In un contesto del genere pensare che l’organizzazione gestionale sia la priorità vuol dire misconoscere che l’urgenza è quella di piegare la missione del servizio pubblico all’emancipazione culturale.

Per esempio il libro recente di Angelo Guglielmi e Stefano Balassone, Finalmente una riforma della Rai!, che sembra una delle fonti d’ispirazione di questo disegno di legge, pur riconoscendo che “l’industria culturale, e in particolare quella audiovisiva, compete sulla qualità e non sul prezzo” non tocca la nota dolente del sistema della televisione pubblica: la Rai non ha idee, inventa pochissimo, non vende le sue idee, dipende da produzioni esterne (Endemol, Magnolia, Einstein…) – anche per format semplicissimi, come In mezz’ora o Che tempo che fa, e per tutto il comparto fiction. E – aspetto non indifferente – attraverso questo subappalto diffuso, dequalifica i lavoratori con contratti precari e compensi ribassati.

Certo, quando si è provato a mettere su un laboratorio interno, il fallimento è arrivato in un lampo: nel 2000 il direttore generale di allora Pierluigi Celli diede vita a Serra Creativa, un’apposita struttura per la creazione di idee e progetti per programmi. Ma, come ricorda Gilberto Squizzato nella Tv che non c’è, fu totalmente stravolta nel suo contrario: e dopo aver valutato più di 1.210 progetti di cui solo 45 avevano superato l’esame e appena quattro erano stati venduti, tutti a strutture della Rai, nel 2002 fu messa il liquidazione.

I rimorsi di coscienza del servizio pubblico sono messi a tacere con la foglia di fico di Rai Cultura

È possibile che in questi anni non si sia riusciti a formare internamente autori capaci di realizzare format e progetti che funzionino e che si possano perfino vendere fuori dalla Rai? È possibile che sia aumentato sempre di più il potere di dirigenti, direttori commerciali, responsabili di palinsesto e diminuito sempre di più quello degli autori, dei registi, dei programmisti?

È davvero solo per un problema gestionale se nel palinsesto dell’anno prossimo troveremo Domenica in, Elisir, Porta a porta, Don Matteo 10 e, tra le novità di spicco, la riedizione di Rischiatutto?

Qualche mese fa in un incontro presso la casa editrice Laterza, Anna Maria Tarantola, presentava una lunga relazione sul bilancio dei suoi tre anni come presidente della Rai.

Il testo che potete leggere per intero qui mostra tutti i limiti di questo tipo di dirigenza, perfino nello stile ampolloso e burocratico con cui questa relazione è stata scritta.

E si rivela poco convincente se non miope soprattutto nell’idea che la vocazione culturale e educativa della Rai debba riguardare una parte minima, una nicchia virtuosa, della sua offerta – che si tratti essenzialmente di dare spazio ai contenuti di tipo culturali (lezioni, approfondimenti, documentari…) senza tener conto della trasformazione dei linguaggi e delle forme.

Utenti nel ghetto

Anche qui: quando nel 1977 Bruno Voglino, Giancarlo Magalli ed Enzo Trapani progettarono quella trasmissione rivoluzionaria e di successo che fu Non stop per il format s’ispirarono esplicitamente al teatro d’avanguardia. Oggi i casi di questo tipo – di programmi che guardano aldilà della televisione stessa – sono rarissimi: forse Gazebo?

Dall’altra parte i rimorsi di coscienza del servizio pubblico sono messi a tacere con la foglia di fico di Rai Cultura. Mentre la verità è che i canali di Rai Cultura (Rai 5, Rai storia, Rai scuola più quelli solo su web) sono sottofinanziati e rispondono di fatto a un’utenza marginalissima, si potrebbe dire ghettizzata.

La sfida che la politica dovrebbe saper abbracciare è un’altra. Per la sua presenza ancora massiva nella formazione di tutti gli italiani, una televisione ancora sostanzialmente di stato dovrebbe svolgere il suo ruolo di servizio pubblico con uno scopo molto chiaro: quello che Jérôme Bourdon nel libro Il servizio pubblico chiama “illuminismo televisivo”, l’ambizione di formare cittadini, di fornire loro “conoscenze che gli permettano di partecipare a un dibattito democratico”.

Per cui anche discutere di una riforma della televisione pubblica potrebbe essere qualcosa che ci riguarda tutti da vicino, invece di delegarne le ragioni e gli esiti a una stanca classe politica che si diletta nel toto-nomine del consiglio d’amministrazione in questi caldi giorni d’agosto.

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