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Suburra è un luna park moralistico e senza ironia

Dal film Suburra. (Emanuela Scarpa)

In una manciata di giorni, nel novembre del 2011, sembra che l’apocalisse stia per abbattersi su Roma: un papa vuole dimettersi, un governo sta per crollare e il mondo del malaffare è in allarme perché un grande colpo – la trasformazione di Ostia in una specie di Las Vegas dell’abusivismo e del riciclaggio, casinò e alberghi di lusso – sta per saltare, per colpa della scempiaggine e dell’intemperanza di politici e criminali coinvolti.

A cercare di non far franare tutto, a provare a mantenere un equilibrio omertoso nel potere nero, c’è un boss di vecchio corso, chiamato Samurai, ispirato un po’ a Massimo Carminati, un po’ a Carmine Fasciani, capoclan di Ostia dagli anni duemila in poi. Finirà molto male.

Questa è Suburra.

Vedo il film a Ostia, dove lo danno in tre sale perché per certi versi è una specie di prodotto locale, e anche nella fila per i biglietti commentano “… e poi se vede er posto che sta vicino ar Kursaal…”, “… speramo che non ce stanno troppi zingari…”, e questo genere di aspettativa non è diverso da quello che ho anche io.

Come avranno costruito questo film gli sceneggiatori (Giancarlo De Cataldo, Carlo Bonini, Stefano Rulli e Sandro Petraglia) e il regista (Stefano Sollima)? Un film che loro stessi hanno definito quasi scavalcato dalla realtà: dalle trame fetide delle mafie capitali, dai dialoghi ferali delle intercettazioni della banda Carminati - Buzzi, dal parodico hollywoodismo amorale dei funerali dei Casamonica, da una Roma che tutti i giorni nella cronaca quotidiana sembra impazzita, invivibile, estrema?

Suburra


In realtà Suburra non riserva nessuna sorpresa. L’impronta narrativa è un innesto venuto maluccio tra la poetica di De Cataldo e quella di Rulli e Petraglia – ossia tra le due riscritture più ingombranti dell’immaginario visivo degli ultimi dieci anni.

Sin city paesana

Da una parte l’idea di De Cataldo di raccontare il mondo della criminalità italiana come un noir popolato da personaggi mitici, ostaggio di forze metafisiche: il Male, il Potere, il Palazzo. Dall’altra la visione di Rulli e Petraglia che riscrivono la storia a partire da uno schematismo psicologico molto semplificato: diventi un terrorista perché non hai avuto affetto da piccolo, diventi un criminale perché volevi imitare tuo padre.

Il risultato è un compromesso al ribasso, che mette in scena un mondo bidimensionale, una specie di luna park del crimine romano, in cui i personaggi sono dei cartonati che ci mettono la stessa paura di una silhouette che ci appare nel buio e la storia è una serie di clip girate piuttosto bene in cui la cosa che notiamo di più non è quello che accade ma i fondali costruiti da bravissimi scenografi.

I personaggi che la abitano sono tutti cattivi, o meglio cattivoni

Se c’è una cosa che va infatti lodata in Suburra è la bravura del cast tecnico (dallo scenografo Paki Meduri al responsabile degli effetti speciali Luca Ricci al direttore della fotografia Paolo Carnera) che riesce a costruire una Roma spettrale, perennemente sotto la pioggia, in cui le contraddizioni della grande bellezza si sono tutte annullate in un nerissimo inferno senza scampo.

Quello che non riesce è il lavoro autoriale: dare credibilità a questa città del Male come metafora. Invece di essere l’ombra inquietante della città del Palazzo e del Vaticano, dell’antico splendore monumentale e della dolce vita, somiglia a una Sin city paesana – “in questa città è diventato pericoloso pure attraversare la strada”.

I personaggi che la abitano sono tutti cattivi, o meglio cattivoni. C’è il politico di centrodestra corrottissimo (Pierfrancesco Favino), il vecchio boss scaltro e spietato (Claudio Amendola), il nuovo piccolo boss incontenibile e sanguinario (Alessandro Borghi), il feroce e buzzurro capoclan degli zingari (Adamo Dionisi), il pierre opportunista senza scrupoli (Elio Germano), un vescovo mellifluo e corrotto (Jean-Hugues Anglade).

Ma purtroppo se in una storia c’è solo il male – e non redenzione, tradimento, disillusione, continue ombre – questo male finirà per risultare consolatorio: terribile ma alieno da noi, distante, fondamentalmente esotico.

(Da qui in poi ci sono degli spoiler).

Qui il rischio di fare un film manicheo, dall’etica grillina, è dietro l’angolo

Così non ci stupiamo molto se la trama di Suburra si snoda con una serie di ammazzamenti successivi : gli affiliati della mafia, della politica, della nuova e vecchia criminalità non riescono più ad allearsi e si ricattano, si combattono, fino ad annullarsi e a lasciare un vuoto che forse gli sceneggiatori hanno pensato fosse evocativo dell’effettivo vuoto di potere che oggi esiste a Roma (anche nell’ultimo romanzo di Massimo Lugli Nel mondo di mezzo ispirato a Mafia capitale accade la stessa cosa).

Le scene di violenza sono spesso talmente estreme che sembrano non avere nulla né di realistico né di impressionante. Un esempio per tutti è la sparatoria al centro commerciale: in pochi minuti si consuma tra gli scaffali di un supermercato in pieno giorno una strage senza che intervenga la polizia, senza che scatti nessun allarme, senza che questa notizia riempia i telegiornali nei giorni successivi, senza che a uno dei criminali feriti sia impedito di scappare con una macchina che sgomma libera nel parcheggio del centro commerciale – un parcheggio del centro commerciale vuoto!

Goffredo Fofi ha scritto che Suburra va letto senza la tentazione di una diatriba realismo-non realismo, perché è molto più evidente il tentativo di fare un cinema di genere, la ripresa di un filone molto fortunato negli anni settanta: il poliziottesco.

Lo sguardo ingabbiato e costretto a impressionarsi

Ma a parte che si potrebbe controbattere che per fare un poliziottesco, la polizia ce la devi mettere, e invece in Suburra compare per venti secondi su due ore (una squadra di sommozzatori, tra l’altro), l’interpretazione di Fofi non regge.

Il poliziottesco degli anni settanta italiano – quello amato, citato, omaggiato da Quentin Tarantino, Robert Rodriguez e i loro vari figliocci, compreso José Padilha della serie Narcos in questi giorni su Netflix – mostrava anche allora un gusto autoparodico; creava un anticorpo interno alla violenza scioccante affidando scene di comicità ai caratteristi; gestiva la musica non in modo pervasivo e organico come fa Sollima – che trasforma gli M83 in una sorta di Vangelis de noantri per un Blade runner capitolino – ma in modo spesso dissonante, antifrastico alla scena.

In una parola, usava l’ironia.

Un’ironia che in Suburra manca totalmente, sostituita dal moralismo – quest’aspetto l’ha colto bene Emiliano Morreale. E se la critica politica negli anni settanta bollava i poliziotteschi italiani come film fascisti, non cogliendo il senso postmoderno dell’operazione (come farà appunto Tarantino), qui il rischio di fare un film manicheo, dall’etica grillina, è dietro l’angolo.

Tutto il potere è marcio, gli unici buoni sono i manifestanti in piazza che avanzano quando il governo cade nelle ultime scene. Le decine di morti sul campo alla fine sembrano venire incontro al desiderio rituale di un repulisti: tutti a casa diventa tutti al cimitero.

Il difetto narrativo più palmare in Suburra è di prendersi troppo sul serio

Così quando, per esempio, nell’epilogo c’è anche un bulldog che sbrana il capo zingaro, è come se assistessimo a una liturgia macabra che più che catartica è voyeuristica. È come se Sollima volesse ingabbiare il nostro sguardo, costringerlo a impressionarsi. Confrontate la stessa scena con quella al minuto 14 di un classico del poliziottesco, Il cinico, l’infame e il violento anche lì ci sono due bulldog che sbranano un uomo vivo – ma accanto allo sguardo dei cattivi c’è sempre quello del criminale perturbato dall’eccesso di violenza, e tutto senza musica sotto.

Un’assenza ingombrante

Il difetto narrativo più palmare in Suburra è di prendersi troppo sul serio, e voler tenere insieme due registri incomponibili: fare un film di denuncia e fare un film di genere. Iper-realismo e trasfigurazione. Per questo le scene meno riuscite sono quelle che richiederebbero una verosimiglianza: la sparatoria al centro commerciale, abbiamo detto; ma anche il finale dove il politico corrotto, a parte uno sfogo iniziale, non sembra troppo scosso quando gli rapiscono il figlio piccolo; o i confronti tra i vari boss, tutti scritti con dialoghi tanto apodittici da risultare a tratti caricaturali.

E perfino attori bravi – come Claudio Amendola o Pierfrancesco Favino – sono sempre costretti dalle battute che devono pronunciare a toni ispirati e sentenziali, risultando troppo enfatici per essere verosimili.

L’unico che s’inventa una lingua è Alessandro Borghi che usa un birignao nasale, masticato, con cui prova a rendere la frantumazione del romanesco odierno.

L’energia morale nutrita da un desiderio di purificazione si indebolisce

E veniamo ai buchi tout-court della sceneggiatura (forse non dello script, ma sicuramente del plot), che probabilmente saranno compensati quando il film sarà di nuovo gonfiato per diventare la prima serie prodotta da Netflix e Rai: che fine fa il bambino rapito? Perché non ammazzano la prostituta mentre chiunque sappia un millesimo dei piani della criminalità viene scannato?

E come fa la tossica a sapere dove si nascondono le guardie del corpo di Manfredi quando li va a freddare? E perché il villone di Manfredi sempre popolato da decine di persone e sorvegliato a vista da guardie del corpo è improvvisamente vuoto e incustodito quando Sebastiano ce lo porta incaprettato per ammazzarlo?

Infine, un’ultima notazione: nel fotografare una Roma luciferina in pasto ai poteri oscuri, manca oltre la polizia, anche un altro protagonista piuttosto ingombrante: il Pd e la sinistra in generale.

A Samurai viene messa in bocca sul finale una battuta – “quando cambierà il governo, troveremo pure qualcun altro con cui fare affari” – che sembra più una pezza o un’excusatio non petita.

E allora anche quell’energia morale nutrita da un desiderio di purificazione si indebolisce, per la rimozione di quella zona grigia – il malmostoso mondo di mezzo – che ha permesso il prosperare di un senso di corruzione diffusa anche nella società civile, nell’associazionismo, in quella parte che pensavamo migliore.

Ma del resto se non ci è data la possibilità di volgere uno sguardo pietoso verso chi è malvagio, difficilmente ci sarà data quella di volgere uno sguardo feroce verso noi stessi. E ci sentiremo innocenti solo perché non sappiamo chi siamo.

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