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L’esordio letterario dell’anno pecca di troppa perfezione

Emma Cline a New York, il 3 giugno 2016. (Sunny Shokrae, The New York Times/Contrasto)

L’esordio sensazionale dell’anno non è un libro così sorprendente. The girls, scritto da Emma Cline, 27 anni, e in uscita tra qualche settimana anche per Einaudi nella traduzione di Martina Testa, Le ragazze, è la storia di Evie, una ragazzina di 14 anni impacciata e curiosa, figlia unica di una coppia di adulti poco autorevoli divorziati da poco, che in un pomeriggio accidioso e assolato del 1969, nel pieno della summer of love californiana, s’incanta di fronte all’aura di un gruppo di ragazze trasandate e magnetiche:

Notai prima di tutto i capelli, lunghi e spettinati. Poi notai i gioielli che brillavano al sole. Erano in tre, erano così lontane che vedevo solo la periferia dei loro lineamenti, ma non importava: capii subito che erano diverse da tutte le altre persone del parco. […] Le ragazze con i capelli lunghi sembravano scivolare su tutto quello che le circondava, figure tragiche e isolate. Come una famiglia reale in esilio.

Il romanzo è una favola nera e un traumatico romanzo di formazione: preda dell’incantesimo Evie seguirà la scia delle ragazze e si ritroverà in una comune di giovani scoppiati guidata da un personaggio ambiguo, violento e inspiegabilmente carismatico chiamato Russell; scoprirà il sesso, le droghe, la morte, ma soprattutto quanto ci può essere estraneo il nostro corpo e quanto feroce il mondo.

Narrato con una voce oscillante tra la Evie adulta – consapevole, dolorosamente nostalgica, ellittica – e quella della Evie di allora – ipersensibile, fragile, ancora informe –, The girls ha l’intelligenza letteraria di rielaborare il caso famoso della famiglia Manson, del suo culto balordo e dei suoi omicidi feroci, trasformandolo in una storia senza tempo.

A rivederle – si trovano decine di filmati anche su internet – le immagini delle ragazze adepte dell’assurda fede complottista di Helter Skelter e colpevoli di vari omicidi (tra cui la giovane e incinta Sharon Tate), che sfilano in tribunale tenendosi per mano, o cantano canzoni dei Beatles come inni religiosi, angeliche e seducenti, è impossibile non provare un turbamento anche oggi che siamo capaci di usare il filtro della ricognizione storica; e lo stesso vale per le interviste che sono state realizzate dopo sia a Charles Manson sia, per esempio, a Susan Atkins – quando era in carcere da anni e si era convertita al cattolicesimo, o quando sul letto di morte recitava il salmo ventitreesimo.

Uno sguardo indulgente
Rispetto a un episodio così presente nell’immaginario popolare, così raccontato, così morbosamente inseguito, la scelta di Cline non è stata quella di rincorrere calligraficamente lo spirito di un’epoca, attraverso i mille possibili riferimenti pop (non ha voluto fare un Forrest Gump, dice in questa intervista con la Paris Review), ma di voler trovare in un inconscio collettivo qualcosa di sepolto che somigliasse alla perdita irreversibile dell’innocenza (come aveva già fatto, per esempio, nel racconto seminale di The girls, Marion, pubblicato sempre sulla Paris Review).

Per questo l’ipersensibilità ai dettagli di Evie è l’opposto dello sguardo malinconico e famelico di Vizio di forma di Thomas Pynchon che quella stessa estate racconta, ed è distante anche da quello che sembra il fratello maggiore di The girls, Le vergini suicide di Jeffrey Eugenides: qui il dolore della disillusione è coccolato, ambito, e tra la voci di Evie adulta e di Evie ragazzina il diaframma non è quello di una differenza morale, ma solo quello di un’intonatura.

Fa bene Claudia Durastanti in questo bellissimo pezzo sul libro a sottolineare che “Cline scrive così perché ha ventisette anni”. L’impressione è che se c’è una caratteristica che le deriva dalla sua età è un’impermeabilità alla dimensione tragica: il suo sguardo non è tragico ma estetizzante, indulgente, psicotico a tratti, quello di un’assuefazione al trauma – come se Evie e Cline si fossero formate in una bolla di disincanto in cui il confine tra bene e male è fantasmatico. Per Durastanti questo rischio di manierismo pertiene allo stile di Cline, così perfezionato da giovane: “Un dispiego fiducioso di tutti i mezzi a disposizione, la fiera ostentazione di un talento che può affievolirsi negli anni”, ed è vero che la grazia di The girls è quello di una narrazione che non lascia mai il campo ai graffi dell’inesperienza, ma pare così rotonda e calibrata che può correre come unici rischi quello di perdersi o di apparire un prodotto di laboratorio, come l’ha paventato anche Alessandro Baricco in un suo giudizio sbrigativo.

Se ci pensiamo, non è questa perfezione quello che davvero cerchiamo in un narratore

Ma non c’è solo questo. È vero che la canonizzazione precoce che, per esempio, le è reputata da James Wood sul New Yorker (“Cline è già un’autrice di stile e talento, apparentemente privilegiata dalle muse. Al suo frequente meglio, Cline vede il mondo in modo generoso ed esatto”) può essere facilmente dimostrata dalla qualità di certe sue metafore o di certe frasi taglienti.

Mentre leggevo segnavo le similitudini:

“Gli anelli da quattro soldi che avevano alle dita erano come una seconda fila di nocche”, “Coi piedi nudi affiancati l’uno all’altro come due pagnotte”, “I loro volti cambiano come se si fosse aperto un otturatore”, “Alzarono gli occhi dal chiarore abbagliante delle luci della cucina come procioni sorpresi a frugare nell’immondizia”, “La ragazza si voltò verso Julian, con il viso vuoto come un cucchiaio”, “Julian accompagnò Sasha nell’altra stanza come un placido pastorello di capre”, “Mia madre riattaccò la sua tipica storia, come la sopravvissuta a un incidente stradale ancora intontita”, “Sembrava bizzarra e selvatica come quelle rose che sbocciano in un’esplosione sgargiante di colore solo una volta ogni cinque anni”, e così via.

La sensazione che ne ricavavo, pagina ricamata dopo pagina ricamata, era certo quella di una efficacia visiva rara, dall’altra parte però anche quella di un’esibizione del proprio essere ipermetrope.

Se ci pensiamo, quello che davvero cerchiamo in un narratore, non è questa perfezione, ma al contrario una qualche ottusità, che può di volta in volta derivare dall’ossessione (vedi Nabokov, Foster Wallace, Bernhard) o da un nistagmo, da una riduzione del campo (vedi Kafka, Carver, Munro, Coetzee): è questa tara che si portano dietro la voci narranti che rendono credibile quella relazione impossibile ma intima che esiste tra lettore e scrittore. È la parzialità che ci produce la sospensione del giudizio. The girls è un romanzo scritto benissimo, ma Cline deve imparare a raccontare ciò che il suo sguardo perde, non solo quello che è capace di catturare.

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