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Un antidoto al veleno della post-verità

Washington, il 19 gennaio 2017. (Sam Hodgson, The New York Times/Contrasto)

Per l’accoppiata spaventosa delle vittorie della Brexit e di Donald Trump si sono cercati subito dei capri espiatori da parte di quegli stessi giornalisti, sondaggisti e analisti che fino a poche ore prima dei voti ne scongiuravano la possibilità con un’alzata di spalle.

Il feticcio preferito di quest’esame di coscienza collettivo dei mezzi d’informazione è stata la post-verità, un fenomeno che indica l’invasione inarrestabile di false notizie (le cosiddette fake news) che ha devastato il dibattito pubblico. Termine apparso per la prima volta negli anni novanta per parlare della distorta informazione di guerra in Iraq, post-truth è diventato diffusissimo negli ultimi mesi, tanto da essere eletto parola dell’anno dall’Oxford Dictionary e da scomodare i linguisti dell’Accademia della Crusca – che mentre cercavano di darne una sua definizione allargata si sono anche chiesti se questa fortuna fosse una moda:

Del resto la lingua sarà uno degli strumenti che col tempo ci aiuterà a capire se davvero siamo di fronte a un fenomeno nuovo: se al di là della moda del momento la parola attecchirà nella lingua (la nostra, ma anche le altre lingue del mondo visto che il fenomeno è globale) evidentemente avrà riempito una casella semantica vuota riservata a descrivere un concetto caratterizzante, se non un’era, almeno una specifica congiuntura storica.

Ciò che è abbastanza condivisibile nelle fumose dispute sulla post-verità è la considerazione che negli ultimi anni la verità non è stata trattata molto bene dai mezzi d’informazione. Spesso le sono stati preferiti dei sostituti “al sapore della verità”: scoop, anticipazioni, esclusive, rivelazioni, retroscena, confessioni, leak, intercettazioni… Questa iperofferta di verità da discount non ha diminuito il bisogno di verità; proprio come accade quando c’è una proposta diffusa di beni scadenti, capita che la qualità sia ancora più ricercata.

In un libro del 2011, Introduzione alla verità, Franca D’Agostini dedica gli ultimi capitoli meno filosofici a una sorta di sociologia del concetto di verità e sostiene, appunto, che in un contesto linguisticamente degradato la verità torna a essere rilevante.

Sembra dunque di dover dire che il concetto Verità fa la sua comparsa nel linguaggio e nel pensiero quando non c’è verità, o meglio: c’è, ma non è riconosciuta, o c’è ma in modo precario, incerto, quel che è ritenuto Verità da una parte sociale […] non è ritenuto tale dall’altra parte. Questo non deve sorprendere: è un requisito naturale dei superconcetti, il fatto che diventino rilevanti ed entrino nei discorsi quando ci sono conflitti, incertezze e contraddizioni che li riguardino.

La tentazione opposta alla libertà
Il dibattito sulla post-verità potrebbe insomma far bene alla verità – ma ciò può accadere solo se si colloca questa discussione in un ambito che fin dall’inizio della storia del pensiero occidentale è in rapporto con la politica.

Verità e politica non sono mai state molto amiche. In un testo famoso pubblicato sul New Yorker nel 1967 dedicato proprio a questo confronto Hannah Arendt scriveva:

Nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra e nessuno, che io sappia, ha mai annoverato la sincerità tra le virtù politiche. Le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi strumenti non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quello dello statista. Perché è così? E che cosa significa ciò, da un lato, per la natura e la dignità dell’ambito politico e, dall’altro lato, per la natura e la dignità della verità e della sincerità? È forse proprio dell’essenza stessa della verità essere impotente e dell’essenza stessa del potere essere ingannevole? E che genere di realtà possiede la verità se essa è priva di potere nell’ambito pubblico, il quale, più di ogni altra sfera della vita umana, garantisce la realtà dell’esistenza agli uomini che nascono e muoiono, cioè a degli esseri i quali sanno che sono apparsi dal non-essere e che dopo un po’ scompariranno di nuovo in esso? Infine, la verità impotente non è forse disprezzabile quanto il potere che non presta ascolto alla verità? Si tratta di questioni scomode, ma che sorgono necessariamente dalle nostre convinzioni correnti in materia.

E si può tornare davvero fino all’inizio della storia del pensiero occidentale per rintracciare come nella nascita stessa della democrazia a partire dal suo valore fondamentale – quella libertà di prendere parola (parresia) che viene finalmente considerata superiore alla violenza – s’insinui da subito la tentazione opposta.

Euripide mette in bocca a Medea (versi 582-583) forse la prima storica accusa per chi usa la retorica contro la verità. Sia lei sia il coro se la prendono con Giasone: “Coro. Giasone, hai fatto un bel discorso, ma lascia che te lo dica, anche se forse non te l’aspetti, il mio parere è questo: hai tradito la sposa, e non è giusto.
Medea. Sono certo diversa in molte cose da molta gente. Per me, se un ingiusto è abile a parlare, ciò che merita è una pena grossissima: presume d’adornare i suoi torti con la lingua, e ardisce tutte le ribalderie: ma troppo saggio non direi che sia”.

Il dibattito politico sulla verità e i mistificatori prende l’avvio dall’Atene del quinto secolo. È il Socrate dei dialoghi platonici (nel Gorgia o nel Protagora) che ironizza e polemizza contro i sofisti, contro il loro uso spregiudicato della parresia.

Dialogo senza subordinazione
Questa disputa tra due modalità polari di intendere il potere della parola e il suo rapporto con la verità è stata ricostruita in modo magistrale da Gabriele Giannantoni in un suo testo a cui ha lavorato tutta la vita e che è stato pubblicato postumo nel 2006, Il dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone (oggi è generosamente scaricabile online sul sito di Bibliopolis).

È qui che il Socrate di Giannantoni sembra anticipare di fatto gli attacchi alla ricerca della verità che si succederanno nei due millenni e mezzo successivi. Socrate privilegia la brachilogia, ossia il dialogo serrato, ai lunghi discorsi, la macrologia, dei sofisti. Sbeffeggia la loro esibizione oratoria. Ne svela l’avidità e la strumentalità che spesso sono nascoste dietro la prosopopea. Attacca l’epidissi, ossia quei ragionamenti che contengono in sé una petitio principii, che simulano un’argomentazione.

La qualità della discussione è per Socrate sostanziale, mostra Giannantoni, nel mettere insieme i passi (dall’Eutifrone, dall’Ippia maggiore, dal Carmide…) dove il filosofo ci tiene, contro la faciloneria liquidatoria e l’opportunismo aggressivo delle risposte dei sofisti, a sottolineare il dovere della dialettica.

Si discute per condurre una ricerca in comune, per dissipare i propri dubbi, e per apprendere, e perciò bisogna guardare anche ai propri errori; e se qualcuno dice sciocchezze bisogna farglielo capire e non insultarlo. Di qui la continua esortazione di Socrate a non stancarsi nella discussione e a non perdere la fiducia nel dialogo. In questo contesto va inteso anche il clima di urbanità nelle discussioni socratiche e il costante invito a dialogare con benevolenza ma anche con franchezza, senza subordinare la verità alle convenienze.

Se qualcosa di tutto questo ci suona anche troppo familiare, è forse per un motivo semplice: la postdemocrazia in cui viviamo, la società politica profetizzata da Colin Crouch ha assunto la forma di un simulacro della democrazia diretta. Ci sembra di poter decidere di più, ma quello che facciamo è esprimere di continuo – e invano – il nostro io.

Come notava semplicemente Morozov nel numero 1187 di Internazionale, il problema non sono le notizie false in sé o la loro diffusione, ma il funzionamento del capitalismo digitale, ovvero la potenza di fuoco di Facebook e la sua fame di soldi attraverso la pubblicità.

Ma, al di là della giusta prospettiva con cui Morozov riorienta la discussione, quello della post-verità non è uno pseudoproblema.

In Italia siamo stati abituati da un ventennio berlusconiano ad avere a che fare con un dibattito pubblico in cui il valore della verità è stato misconosciuto, e il livello referenziale del linguaggio è stato rimpiazzato da un genere di messaggi che esautorano completamente il vaglio della critica: la riduzione di ogni discussione seria in burletta.

Il messaggio e il suo effetto
Ci ricordiamo, no? Le dichiarazioni di Berlusconi sul tumore sconfitto in tre anni, le smentite che arrivavano sempre il giorno dopo la sparata, le battute sulla sinistra invidiosa del bunga bunga, e anche le barzellette? Erano chiaramente i prodromi di un modello di comunicazione politica oggi invalso: dai tweet seriali di Donald Trump ai post sul blog di Beppe Grillo nuovamente compulsivo.

Quello che contava per Berlusconi come per Trump o Grillo non è mai il messaggio in sé ma – in una perversione del piano performativo – l’effetto. L’effetto sostituisce il significato. Per questo ha senso pronunciare una balla colossale e venire smentiti il giorno successivo: il significato di quella notizia sarà corrispondente alla differenza tra coloro che hanno ascoltato la notizia ma non la smentita. E sarà sempre un numero di persone abbastanza elevato da non premurarsi di dover essere sottoposti a un fact-checking. L’effetto s’impone come significato.

La statua di Donald Trump al museo delle cere Madame Tussauds a Londra, il 18 gennaio 2017.

Trump è stato eletto nonostante le sue centinaia di bugie, le sue promesse clamorosamente fasulle, la sua ridicola solennità; allo stesso modo in cui il consenso per il Movimento 5 stelle non viene per esempio intaccato dalla girandola assurda di dichiarazioni di Beppe Grillo sulle alleanze in Europa e nemmeno dagli sfondoni sul congiuntivo di Luigi De Maio.

Le armi critiche contro i performer della post-verità sono spuntate, e questo non è solo responsabilità dello strapotere dei social network, ma dalla debolezza di un approccio dialettico nei confronti di chi non riconosce le premesse stesse di quell’approccio.

La ricerca della verità nel metodo socratico aveva due strumenti privilegiati: la confutazione (l’elenchos) e l’ironia. Entrambi gli strumenti si basavano sul prendere sul serio il discorso dell’avversario. Ma che fare quando è l’avversario a non prendere se stesso sul serio?

Nel libro quarto della Metafisica Aristotele difende e struttura questo metodo socratico anche contro gli avversari più tosti, i megarici, i sofisti più eristici, abituati a radicalizzare la loro polemica contro il linguaggio della verità, e sostenitori di una indistinzione tra il vero e il falso. A loro replicava:

E se tutti quanti, parimenti, e dicono il falso e sostengono cose vere, a un individuo convinto di ciò non sarà possibile né esprimersi né parlare, giacché nello stesso tempo afferma le stesse cose e non le stesse cose. E se non suppone nulla ma allo stesso tempo pensa e non pensa, in che cosa si comporterebbe differentemente dalle piante? Dal che è massimamente evidente che nessuno si trova in questa condizione, né fra gli altri che non sostengono questa dottrina né fra coloro che sostengono questa dottrina. Perché mai, infatti, cammina verso Megara e non si resta fermo, pensando di dover camminare? Né immediatamente, di buon mattino, procede nella direzione di un pozzo o di un burrone, se capiti, ma appare guardingo, come se non ritenesse che, parimenti, non è bene ed è bene cadervi dentro? È evidente, pertanto; che suppone che una cosa sia migliore e l’altra non sia migliore.

Ma al contrario di quello che presumeva Aristotele, non si può “legare alle parole” chi sfugge al principio di non contraddizione e al riconoscimento di una corrispondenza tra parole e azioni. Argomentare è davvero inutile.

Aggiungiamo un altro elemento che ci mostra come quella sulla post-verità non sarà una semplice discussione alla moda; in un lungo pezzo sull’ultimo numero del New Yorker, “How the jokes won the election”, Emily Nussbaum mostra come, per chi se ne frega della verità, anche l’ironia può risultare inefficace.

Messo di fronte all’inconsistenza e al disagio delle sue dichiarazioni, Donald Trump ha replicato di volta in volta di essere stato sarcastico, e che perfino la sua imitazione del reporter disabile o la sua uscita sulle torture subite da John McCain erano delle battute, sferzanti magari ma battute. E “mentire raccontando la verità è parte della battuta”, scrive Nussbaum.


La comunicazione politica di Trump, come quella di Grillo, è basata sull’autocontraddizione: è un continuo stavo scherzando, è una serie di battute, ha la violenza innocua di un meme, è la perenne presa in giro della retorica politica stessa, di tutti gli altri linguaggi che – come quello giornalistico – cercano di essere ancora legati a una corrispondenza tra parole e fatti. Fare Trump o fare Grillo non è difficile: è come fare i troll.

E come con i troll è molto complicato replicare fruttuosamente a questo modo di fare.

Possiamo indignarci come Meryl Streep alla cerimonia dei Golden Globe, ma questo non esime Trump dal rispondere con un tweet dandole della “over-rated”.

Per chi oggi ha almeno una quarantina d’anni, assistere al dibattito sulla post-verità forse provoca però una laterale sensazione di déjà vu. Tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta ebbe una certa fortuna il termine postfilosofia, un indirizzo nel quale si riconoscevano alcuni filosofi pragmatisti statunitensi, come Alasdair MacIntyre, ma soprattutto Richard Rorty.

In un testo del 1989 di Rorty, Contingency, irony and solidarity (tradotto in italiano La filosofia dopo la filosofia), si ponevano le condizioni culturali per uscire dal secolo breve e dalle sue ideologie, considerando come la verità non sia un orizzonte a cui tendere, la prospettiva di una ricerca inesauribile, ma semplicemente un costrutto storico.

Alla fine degli anni novanta le macerie del muro travolgevano anche i fondazionalismi, gli assoluti, e gli intellettuali e i giornalisti si lasciavano sedurre dalla possibilità di abbandonare la pretesa e il dovere di rifarsi a un al di là, morale o spirituale o metafisico che fosse. Essere finalmente “ironici liberali”, come si autodefiniva Rorty, regalava in un certo senso il piacere di poter giocare con la storia senza dover rendere conto a nessuno.

Anche prima che fosse la rete – con la sua tempesta continua di informazioni ingestibile da codificare nella quale si mescolano notizie vere e false, fantasie e fatti – a costruire il dibattito pubblico, il concetto di verità era stato alleggerito dagli stessi mass media tradizionali o dagli intellettuali che liquidavano l’impegno, ogni volta che preferivano lo storytelling all’analisi, l’efficacia della comunicazione all’interpretazione, o anche solo la battuta sagace all’empatia (il famoso saggio di David Foster Wallace del 1996, “E unibus pluram”, aveva già esaminato con cura questo rovesciamento della funzione dell’ironia)

Ciechi di fronte all’umanità
Con l’alibi di un relativismo antideologico, la verità si è trasformata semplicemente nel “successo nei confronti della comunità”, per usare un termine rortyiano. Facebook ha solo perfezionato il metodo.

Se ci sentiamo con le spalle al muro, è forse perché siamo stati noi a mettere mattone su mattone.

C’è allora un passaggio del libro di Franca D’Agostini che può esserci utile a riconoscere questa trasformazione nella cultura della verità e a provare a immaginare un antidoto a un veleno rispetto al quale siamo mitridatizzati. È quando parlando del vero autentico, D’Agostini cita Dietrich Bonhoeffer.

Bonhoeffer riferisce il caso del maestro che chiede agli alunni di parlare dei propri genitori. Uno dei bambini, figlio di un disoccupato alcolizzato, racconta un bel po’ di menzogne su suo padre, qualche compagno lo smaschera, e il maestro lo rimprovera di non aver detto il vero.

Ecco che forse riusciamo a mostrare come nel dibattito sulla post-verità sia sottovalutato un aspetto, quello morale. Se noi disgiungiamo l’ethos dal logos – ossia se in quest’esempio non teniamo conto del nostro sentimento civile che ci fa apprezzare la non verità del bambino e considerare ingiusta la richiesta di verità da parte dell’insegnante – dimentichiamo un pezzo importante di verità.

Facciamo come l’insegnante, ciechi rispetto alla verità completa della situazione: non vediamo l’affetto del padre nei confronti del bambino, non vediamo il bisogno del bambino di essere rispettato dai compagni, non vediamo l’umanità, non riconosciamo la condizione di finitezza che ci accomuna.

In Attesa della verità, la raccolta di scritti di Simone Weil da poco uscita per Garzanti, c’è una sezione proprio sulla verità che ne svela il carattere intrinsecamente proiettivo. La verità è un orizzonte, è un altrove, è qualcosa che ci trascende. “Amare la verità vuol dire tollerare il vuoto. […] Non si può amare la verità con tutta l’anima senza strappi”.

Parlare della post-verità può avere un senso se individuiamo in quello che è un dibattito sull’informazione e la politica, su Facebook e il populismo, la radice di una crisi della civiltà: una forma di patologia che ci rende progressivamente ciechi nei confronti di ciò che ci riguarda più profondamente.

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