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Tradizioni napoletane

Riascoltando Sanacore degli Almamegretta per il suo venticinquesimo anniversario, trascorso da poco, è inevitabile pensare a come nel corso del tempo, sotto l’influsso di trasformazioni socioculturali, la musica urbana di matrice folclorica sia stata considerata più bianca o più nera o più indigena, assumendo vocazioni separatiste rispetto a una specie di sincretismo – sicuramente ingenuo – degli anni ottanta e novanta. Se all’epoca degli Almamegretta si poteva prendere in prestito qualsiasi cosa, approfittando anche di un meridione e di una Napoli portuale e delle numerose influenze arabe e nordafricane, negli ultimi anni si è attinto soprattutto dal proprio quartiere o dalla propria storia per contenere i danni dell’appropriazione culturale. Ma solo in apparenza, e soprattutto in termini di dialetto.


Alcuni artisti hanno provato a mescolare le cose, portando avanti una domanda provocatoria: “Chi può cantare cosa?”. Sospettare che quello di Liberato non fosse un progetto locale “verace”, ma intimamente post-coloniale, pronto a spingere sull’identità neomelodica e a esasperarla per frantumarne l’idea di purezza originaria faceva parte del gioco. Come dimostrano le canzoni di La Niña (la cantante e musicista Carola Moccia), che mescola folclore e suoni in bilico tra la trap più elegante e l’rnb destrutturato in lingua napoletana, c’è un ritorno quasi pacificato all’idea di usare la tradizione senza ossessioni e senza patenti di legittimità: il risultato è lineare ma anche poroso, non solo prende in prestito ma si lascia prendere in prestito.

Questo articolo è uscito sul numero 1397 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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