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Sulle tracce della maturità

La prima prova scritta degli esami di maturità al liceo Visconti di Roma, il 20 giugno 2018. (Cristiano Minichiello, Agf)

Non sono mai stato del tutto convinto che l’esame di stato serva a qualcosa. Sospetto che un esame che viene superato dal 99,5 per cento dei candidati (questo il dato del 2017) non sia veramente un esame ma una di quelle cose fatte pro forma, cioè retoricamente, nelle quali l’Italia è specialista. Forse sarebbe più utile inventarsi qualcosa di diverso: un esame vero, quindi con un numero maggiore di respinti; oppure nessun esame, e a una giusta selezione penseranno, per chi ci andrà, le università (io sarei, in astratto, per questa seconda soluzione).

Ciò detto, di fronte alle tracce della maturità mi sento spesso un po’ a disagio, perché non sono sicuro che sarei in grado di svolgerle. La prima reazione che ho è: “Per fortuna non è toccato a me”. Quest’anno secondo gli studenti intervistati al telegiornale dovevano “uscire”, come al lotto, Aldo Moro, Luigi Pirandello, Umberto Eco (“Eco, perché è appena morto”, diceva una ragazza sulla porta della scuola, ma veramente sono passati due anni). E i migranti. Gli studenti pensano che al ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (Miur) vogliano farli riflettere soprattutto sul presente, sollecitando buoni sentimenti, e che abbiano, chissà perché, un’attenzione quasi feticistica per gli anniversari (settant’anni dalla costituzione, quaranta dal delitto Moro, cinquanta dal sessantotto: il calendario è folto). In linea di massima hanno ragione.

Sono “usciti” Giorgio Bassani, la cooperazione internazionale, il principio di uguaglianza formale e sostanziale, un percorso di testi su “I diversi volti della solitudine nell’arte e nella letteratura”. Tracce, solo tracce di Aldo Moro, nel tema sulla cooperazione, e di Pirandello, nel tema sulla solitudine.

Nel brano tratto dal Giardino dei Finzi-Contini non pochi studenti avranno avuto difficoltà, intanto, con il lessico: “longanimità”, “impettito”, “intimarmi” non sono parole di cui tutti conoscano il significato – ma per fortuna non si chiede di parafrasarle, e del resto c’è, a soccorrere, il vocabolario. Le domande fatte in relazione al brano mi paiono molto sensate; la richiesta di “riassumere sinteticamente” l’avrei precisata meglio, indicando il numero delle righe, e tenendolo basso (5-7, diciamo), per evitare sbrodolamenti. Bene il resto.

La parte di “Interpretazione complessiva e approfondimenti” è la più pericolosa, ma la colpa è di chi ha scelto la traccia. Mi aspetto un diluvio di pensierini accorati sulla discriminazione e l’emarginazione, con “riferimenti” non “a opere letterarie che conosci” (ben poche se ne conoscono a diciott’anni) ma alla cronaca, all’esperienza filtrata – spesso malamente – dai mezzi di informazione. I migranti, la solidarietà. Avrei preferito una traccia che non desse luogo a questo tipo di retorica autoindulgente, anche troppo diffusa tra gli adolescenti. Qualcosa di più asciutto.

Quanto al “saggio breve”, l’ho sempre trovato un esercizio difficilissimo. Collegare insieme in un’argomentazione sensata brani di autori sparsi nella letteratura, nell’arte, nella storia del pensiero, richiede una forma mentis e una cultura fuori del comune. Il rischio, quando si è giovani e sprovveduti, è giurare sulle parole dei maestri, avallare le loro opinioni solo perché sono stampate sul foglio dell’esame di stato. Ma capisco che lo si faccia per insegnare agli studenti ad argomentare, a costruire un discorso coerente.

Il tema di quest’anno, la solitudine, è un bel tema, un tema per persone mature. Il brano tratto da De vita solitaria è acuto e suona – come non càpita spesso, almeno secondo me, con il Petrarca prosatore – stranamente moderno. Il brano di Pirandello, così fuori contesto, è molto difficile da capire (e, a mio giudizio, più fumoso che profondo); mentre ho sempre trovato una poesia tremenda Ed è subito sera di Quasimodo. Tremenda anche Alda Merini. Meglio Emily Dickinson, ovviamente, ma qui non con una delle sue poesie migliori. Gli esperti del Miur hanno proprio una visione scolastica – in senso deteriore – della poesia. Sul tema della solitudine si poteva trovare di molto meglio con poco sforzo, per esempio questa meraviglia di Philip Larkin (traduzione mia):

Wants
Beyond all this, the wish to be alone
However the sky grows dark with invitation cards
However we follow the printed directions of sex
However the family is photographed under the flagstaff
Beyond all this, the wish to be alone.

Beneath it all, desire of oblivion runs:
Despite the artful tensions of the calendar,
The life insurance, the tabled fertility rites
The costly aversion of the eyes from death –
Beneath it all, desire of oblivion runs.

Desideri
Al di là di tutto questo, il bisogno di essere soli
Anche se il cielo è oscurato dai biglietti d’invito
Anche se seguiamo alla lettera le istruzioni per il sesso
Anche se la famiglia si fa fotografare sotto la bandiera
Al di là di tutto questo, il bisogno di essere soli.

Al di sotto di tutto, corre il desiderio dell’oblio:
Malgrado le artificiose tensioni del calendario,
L’assicurazione sulla vita, le tabelle coi riti di fertilità
Gli occhi che a caro prezzo si distolgono dalla morte –
Al di sotto di tutto, corre il desiderio dell’oblio.

Ma forse è proprio l’idea di integrare delle poesie in un testo argomentativo a essere sbagliata (non parliamo dei quadri! Ma perché mai?): si finisce per mescolare riflessione ed emozioni, dimostrazione ed evocazione, concetti chiari e distinti a concetti sfocati – bell’esercizio, ma a riuscirci senza essere vacui o retorici bisogna essere proprio bravi, molto più bravi di quanto non siano, e non debbano essere, dei diciottenni.

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