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Prince è morto ma è nel nostro dna

Prince durante il tour The ultimate live experience a Breda, nei Paesi Bassi, il 24 marzo 1995. (Paul Bergen, Redferns/Getty Images)

Delle persone che muoiono si dice che lasciano un vuoto. Un vuoto incolmabile, si aggiunge con aria di circostanza. Prince è morto il 21 aprile, ma di lui tutto si può dire tranne che lasci un vuoto. Trentanove album, centinaia di canzoni scritte per altri, tante collaborazioni e migliaia di ore di concerti. Prince ha passato 57 anni a creare, a sperimentare e ad accumulare.

Di lui si è detto che fosse patologicamente timido, riservato ai limiti dell’autismo, che passasse giorni senza parlare e senza dormire e che con i suoi musicisti comunicasse in modo quasi telepatico. Era un solitario, si è detto, un disadattato. Era impossibile capire cosa pensasse, cosa volesse. Ha vissuto 57 anni posseduto da una febbre creativa che lo ha consumato.

Prince era un recluso, è vero. Ma morendo così all’improvviso ci ha lasciato le chiavi del suo mondo. La sua musica, sia quella conosciuta sia quella ancora chiusa nella sua cassaforte, è una specie di palazzo, ora finalmente concluso. Finché era vivo, Prince era come la fabbrica di San Pietro: poteva ancora aggiungere un salone, un pinnacolo, una cupola. Ora la sua reggia è finita e possiamo provare ad abbracciarla con lo sguardo, a contarne le stanze, a percorrerne i corridoi.

Prince non comunicava con il mondo esterno, ma la sua grande casa ha sempre avuto le pareti di vetro. Per tutti questi anni ha voluto che lo guardassimo mentre costruiva il suo mondo. Ha lasciato che lo spiassimo mentre entrava e usciva dalle sue stanze, mentre si spogliava e si vestiva, mentre ballava davanti allo specchio e faceva l’amore, sia con donne bellissime sia con se stesso.

I materiali da costruzione li trovava un po’ dappertutto. Tanto si è scritto delle sue influenze: alcune sono evidenti (Sly Stone, James Brown, Jimi Hendrix) altre sono più segrete (Joni Mitchell, i Beatles, la psichedelia degli anni sessanta) e Prince si è sempre divertito a mescolare i generi a sfuggire alle catalogazioni. Quello che David Bowie faceva con istinto teatrale, cambiare personaggio, cambiare voce, Prince lo faceva da musicista, con il suono.

Prince ha raramente sentito il bisogno di essere altro al di fuori di se stesso ma il problema era che essere Prince significava tante cose. Ha cambiato suono e voce mille volte, spesso all’interno di una stessa canzone. È vero: ha avuto degli alter ego (la misteriosa Camille, che con la sua voce accelerata, ha inciso il Black album nel 1987) o il bipolare Gemini, mezzo Batman e mezzo Joker. Ma erano giochini, e anche quando ha cambiato nome era uno specchietto per le allodole. Quando il corpo di Prince non bastava più a contenere Prince, lui proiettava lati di sé su altri artisti, spesso su donne.

Il rapporto con l’universo femminile è la chiave per capire il suo mondo. Pochi maschi sono riusciti ad abbracciare il proprio lato femminile come ha fatto Prince. La sua più grande fantasia sessuale e musicale era riuscire a descrivere il desiderio delle donne.


A volte lo faceva in maniera ironica e pruriginosa (G-spot o Mia bocca scritte per Jill Jones), altre volte in maniera esplicita e arrapata (A love bizarre e Erotic city per Sheila E) e altre ancora in maniera tenera e disarmante, come in If I was your girlfriend). In quest’ultima canzone, tratta dall’album Sign O’ the times del 1987, Prince riesce a trascendere il suo essere maschio in modo quasi sciamanico e confessa che vorrebbe essere la migliore amica della sua donna. Vorrebbe lavarle i capelli, pettinarla, ridere con lei davanti allo specchio mentre scelgono cosa mettersi per uscire. Vorrebbe essere il suo amante maschio ma vorrebbe anche piangere con lei al cinema, abbracciarla come una sorella. La canzone cresce e da morbida ballata diventa altro, una specie di allucinazione: Prince inizia a farneticare e la musica e il testo si smaterializzano fino a un improvviso e assordante silenzio finale.

Si è tanto parlato delle somiglianze tra Michael Jackson e Prince. In effetti sono i due artisti che più di tutti hanno abbattuto i confini tra musica dei bianchi e musica dei neri: hanno spianato la strada al pop di oggi, in cui hip hop e r&b sono il tessuto connettivo del mainstream. Eppure If I was your girlfriend viene da un luogo che Michael Jackson non ha mai avuto la fortuna di abitare. Un luogo in cui si abbandonano le difese e un maschio nero può sciogliersi e ammorbidirsi fino a fantasticare di diventare una donna.

Prince era bravo a nascondersi e a proiettare se stesso sugli altri. Nell’anno di Purple rain, il film e l’album del 1984 che l’hanno reso una pop star planetaria, Prince ha scelto il rock. La base della sua musica restava il funk, con il basso pulsante e percussivo, ma le canzoni erano arricchite da assoli di chitarra, rullate di batteria e lunghe e virtuosistiche code strumentali.


Prince ha volutamente “sbiancato” la sua musica per farsi accettare dal mainstream americano. Eppure, tra il 1981 e il 1984, il Prince più funky e nero continuava e esistere, ma attraverso una band, The Time, che apriva tutti i suoi tour. L’anima funk, machista e nera di Prince veniva riversata in questo progetto parallelo, in una parodistica band rivale che questo messia in tacchi a spillo umilia e sconfigge alla fine del film Purple rain.

Nel provocatorio libro The death of rhythm & blues, il regista e scrittore afroamericano Nelson George arriva a dire che Prince, pur nella sua genialità, ha dato, con i suoi compromessi, il colpo di grazia alla musica nera. Sia dal punto di vista artistico sia da quello industriale. Sicuramente ha chiuso un’epoca, ma se non ci fossero stati i Time non ci sarebbero stati neanche Jimmy Jam & Terry Lewis, i due produttori che, una volta licenziati da Prince, hanno reinventato il suono di Janet Jackson e il pop afroamericano della seconda metà degli anni ottanta.

Prince non lascia nessun vuoto incolmabile. Ci consegna la sua grande casa con le pareti di vetro tutte illuminate e noi possiamo continuare a guardarlo entrare e uscire dalle sue stanze. Ha sprigionato abbastanza energia creativa in 57 anni da lasciarci con musica nuova, da scoprire e da ballare, per i prossimi decenni. Ha influenzato abbastanza gente da farci sentire il suo suono rivivere ovunque: da Pharrell Williams a D’Angelo, da André 3000 degli Outkast a Kendrick Lamar.

Prince è ormai parte del nostro dna culturale e non se ne andrà più. La sua morte è un dettaglio doloroso ma inevitabile: perché per diventare eterni, per diventare leggende, bisogna prima morire. E a Prince mancava purtroppo solo questo dettaglio.

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