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La reincarnazione dei De La Soul

I De La Soul nel 1990. (Michael Ochs Archives/Getty Images)

Nella sua autobiografia, Mo’ meta blues, il batterista dei Roots Ahmir “Questlove” Thompson ricorda la prima volta che aveva sentito, nel 1991, De La Soul is dead, il secondo album del gruppo rap di Long Island De La Soul. Aveva saltato la chiesa per chiudersi nella macchina di un amico e sentirsi in santa pace una versione bootleg dell’album che sarebbe uscito ufficialmente mesi dopo. I dischi importanti, soprattutto quelli rap, uscivano in copia pirata anche prima che esistessero gli internet leak. “In quella macchina”, scrive Questlove, “avevo la sensazione di ascoltare l’album meglio sequenziato della storia. Rappresentava tutto quello che amavo dell’hip hop e andava al di là di qualunque mia aspettativa. L’unica cosa a cui posso paragonare quel momento è stata la prima volta in cui avevo sentito It takes a nation dei Public Enemy. Ogni canzone mi stendeva, una dietro l’altra (…) seduto lì, all’una e venti del pomeriggio in una Chrysler rosso bordeaux, mi ripetevo che avrei dovuto ricordare per sempre quel momento magico, perché non ero certo che avrei mai ripetuto la sensazione di sentirlo per la prima volta”. Quando Questlove chiama il suo amico Tariq “Black Thought” Trotter, già suo compare nei Roots, gli dice che quel disco cambierà le loro vite. “Ma no”, gli risponde, “Non potrà mai essere bello come 3 feet high and rising”.

Un’eredità pesante
Nel 1991, subito prima che uscisse il loro secondo album, i De La Soul (i rapper Posdnous, Maseo e Trugoy) erano schiacciati dalla fama del loro straordinario debutto del 1989, 3 feet high and rising. Quell’album, con i beat di Prince Paul, con la sua visione colorata, festosa e gentile e quell’estetica vagamente hippy aveva aperto una nuova, inedita stagione nella storia dell’hip hop. La musica dei De La Soul era sofisticata nella struttura e nelle rime ma anche accessibile, inclusiva e, cosa rara nell’hip hop di fine anni ottanta, sorridente e positiva.

Singoli come Eye know, Me myself and I e The magic number (in Italia usato anni dopo nella pubblicità di una compagnia telefonica) bucarono la bolla dell’hip hop per essere abbracciati da un pubblico bianco ancora non così avvezzo al rap. Nel 1989 in Europa tra i pochissimi artisti hip hop a finire nelle tv musicali generaliste, dopo lo sfondamento di quella testa di ariete che fu Walk this way dei Run DMC e gli Aerosmith, c’erano Neneh Cherry e i De La Soul: la prima era una popstar nata e i secondi erano semplicemente dei geni che trascendevano qualunque genere.

3 feet high and rising, per gli ascoltatori europei, si sintonizzava con un certo sentire new age, e vagamente hippy, che si respirava nella musica pop e nella dance a cavallo tra anni ottanta e novanta. Quei fiori colorati, quei video che sembravano cartoon psichedelici e quei campionamenti soul e jazz così rilassati parlavano sia alla generazione dei primi raver sia al pubblico più ampio che, proprio nel 1989, aveva mandato un pezzo sognante e bizzarro come Orinoco flow di Enya in vetta a tutte le classifiche pop. Negli Stati Uniti i De La Soul erano il volto gentile del rap e la loro idea di D.A.I.S.Y. age, l’era della margherita ma anche un acronimo per “Da Inna Sound, Y’all” (Il suono interiore, gente) era in contrasto con il gangsta rap aggressivo e abrasivo che andava per la maggiore.

Quello che sfuggiva a chi li ascoltava e li ballava, soprattutto al di qua dell’oceano, era che i De La Soul erano, anche se così eccentrici, una crew hip hop ed erano parte dello stesso tessuto connettivo che univa voci afroamericane molto diverse dalla loro. I De La Soul erano parenti stretti di crew più rilassate e meno barricadiere come Arrested Development, Jungle Brothers e A Tribe Called Quest, ma si sono sempre considerati parte dell’evoluzione del rap e della cultura hip hop. Essere considerati dei rapper hippy e new age cominciava a dargli parecchio fastidio. Si sentivano, a causa del loro successo e della loro unicità, spinti in un angolo.


Per questo nel 1991 decidono di “suicidarsi” e di uscire con un album che s’intitolava De La Soul is dead, i De La Soul sono morti. In copertina un vaso rovesciato con dentro delle margherite mezze appassite diceva che la D.A.I.S.Y. age, l’era delle margherite fiorite e della new age, era finita. Quella del suicidio simbolico di un artista di successo per reincarnarsi sotto gli occhi del pubblico non era certo una novità. Nel 1994 Prince avrebbe fatto qualcosa di simile comparendo per l’ultima volta con il nome di Prince e con la sua data di nascita e di morte (fittizia) sulla copertina dell’album Come.

De La Soul is dead è un album ancora più geniale del suo predecessore perché riesce ad avere un suono ancora più coeso e migliore (grazie al lavoro impeccabile di sampling di Prince Paul) e a capovolgere tutte le aspettative. I De La Soul non cambiano stile: impongono la loro voce diversa all’interno della grande famiglia dell’hip hop di quegli anni. È grazie a dischi come questo che anche l’ascoltatore più distratto (e bianco) dei primissimi anni novanta capisce che non esiste un solo rap, ne esistono tanti e ognuno ha il suo stile e le sue istanze da rivendicare. Il rap non è uno: è una pluralità di voci, esperienze e influenze.

De La Soul is dead del suo illustre predecessore conserva “la cornice”, la presenza cioè di skit, piccole vignette satiriche, tra un pezzo e l’altro. All’inizio dell’album dei ragazzini capitanati da Jeff (un personaggio che era già comparso negli skit di 3 feet high and rising) trovano una cassetta dei De La Soul nella spazzatura e proprio mentre si apprestano ad ascoltarla vengono aggrediti da dei bulli che s’impossessano del nastro. Canzone dopo canzone, con il suono di un campanello che, come quello che nei vecchi dei dischi di fiabe per bambini invitava a girare pagina, sentiamo i commenti dei bulli sulla nuova direzione del gruppo. “Questo disco fa schifo!” è la cosa più gentile che sentiamo. E infatti, alla fine, la cassetta tornerà dritta nella spazzatura. I De La Soul usano questo escamotage narrativo per fare a pezzi la loro stessa musica e anticipare le critiche che inevitabilmente si attireranno.

Una questione di sfumature
Se i rapper old school campionavano soprattutto James Brown o il funk degli anni settanta, i De La Soul preferivano il jazz e il rhythm n blues, i suoni suadenti delle radio quiet storm (nell’album c’è anche una parodia di una di queste radio piacione e romantiche) e la disco. In De La Soul is dead ci sono meno colori sgargianti che in 3 feet high and rising, ma ci sono molte più sfumature.

Il primo singolo che fu tratto dall’album è tutt’oggi un classico che è impossibile non ballare: A roller skating jam named “Saturdays”. È forse l’unico vero pezzo da party di un album che è dedicato a temi più caustici o riflessivi e proprio per questo funziona meravigliosamente: tra campionamenti fantasiosi (i fiati di Grease di Frankie Valli e parti vocali di Saturday in the park dei Chicago) e altri (come Good times degli Chic) che ricollegano i De La Soul alle origini dell’hip hop, la canzone decolla con un ritornello memorabile intonato dalla cantante Vinia Mojica. A roller skating jam named “Saturdays” è la quadra perfetta tra pop da classifica, hip hop e disco e anche nel 2023 non sembra invecchiato di un giorno.

In De La Soul is dead non manca la critica sociale: My brother’s a basehead (“Mio fratello si fa di crack”) parla della vita dei neri del ghetto senza né romanticizzare (come spesso fa il gangsta rap) né fare lunghe prediche. Afro connections at a Hi 5 (in the eyes of the hoodlum) è una presa in giro del bullo da strada, un incrocio tra il pappone e il gangsta con il fiato che sa sempre di buono perché “butta giù una Tic Tac all’anguria prima di baciare se stesso”. Ma il momento più duro di De La Soul is Dead è Millie pulled a pistol on Santa (“Millie ha puntato una pistola contro Babbo Natale”) in cui si descrive, con la consueta asciuttezza e perfino qualche tocco di straniante leggerezza, una storia di abusi familiari. Millie viene molestata da quando è una bambina da suo padre che però è un assistente sociale, un uomo considerato integerrimo nella sua comunità. Un uomo talmente giusto che si veste da Babbo Natale per ascoltare i desideri dei bambini del quartiere che gli si siedono sulle ginocchia. Ed è proprio in quel momento che Millie irrompe con una pistola “per ricacciarlo all’inferno”.

De La Soul is dead alterna momenti oscuri a squarci di puro divertimento, ma è sempre percorso da una vena caustica. In Kicked out the house la produzione di Prince Paul brilla di luce propria: è un groove in cui i vari campionamenti sono cuciti tra di loro da fili invisibili. Trugoy apre con una sorta di avvertimento: “Non vogliamo mancare di rispetto a nessuna forma di musica house o da club, ma siamo solo contenti di non farla. E se mai la facessimo suonerebbe così”. Keepin’ the faith e Ring ring ring (ha ha hey) sono altri due numeri irresistibili il cui immenso potenziale di crossover con il pop stupisce ancora oggi in cui avere le classifiche intasate di roba che suona vagamente hip hop è la norma. De La Soul is dead si chiude con la delusione dei bulli che ributtano il nastro nella spazzatura: che robaccia è questa? Dove sono le armi automatiche? Dove sono i papponi? Dove sono le puttane?

De La Soul is dead è un lavoro fondamentale, una pietra angolare della storia dell’hip hop che le generazioni venute su solo con lo streaming non hanno potuto conoscere, o almeno non hanno potuto conoscere nella sua forma compiuta di album. Per complicate ragioni contrattuali legate anche ai diritti di alcuni campionamenti, l’intera discografia dei De La Soul non è mai stata disponibile su nessuna piattaforma di streaming legale. La sorte ha voluto che David Jolicoeur (ovvero Trugoy) morisse il 12 febbraio 2023, poche settimane prima dell’annunciato arrivo di tutti gli album dei De La Soul sulle piattaforme di streaming. Dal 5 marzo infatti 3 feet high and rising, De La Soul is dead, Stakes is high e tutti i loro album, che sono uno più prezioso dell’altro, sono, come si dice oggi, “fuori ovunque”.

A noi vecchi amici dei De La Soul rimane un messaggio dalla loro mailing list che come soggetto ha solo “Dear Dave” e che si chiude con queste parole: “Grazie per averci aiutato a diventare un gruppo che rimarrà inciso per sempre nella genealogia della cultura hip hop e nel tessuto stesso della musica. Da ora in poi quando faremo Ring ring ring ha ha hey diremo: 2-2-2-2222, abbiamo un angelo in cielo che può parlare con te”.

De La Soul
De La Soul is dead
Tommy Boy/Warner Bros., 1991

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