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Un trauma lungo trent’anni

Sanja Baljkas, Getty Images

Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, più di ottanta scrittrici e giornaliste italiane hanno lanciato una campagna per tenere alta l’attenzione sulla violenza di genere. Dal 3 gennaio al 3 marzo appariranno sui giornali italiani articoli e racconti per definire la violenza e nominarla. Ognuna userà la sua voce e la sua esperienza personale per descrivere un fenomeno complesso e multiforme, perlopiù tollerato dalla società.

Era la fine degli anni novanta. Ero una studente al primo anno d’università. Quell’estate lavoravo in un locale per pagarmi gli studi. Mi davano vitto e alloggio, il che mi permetteva di vivere lontana dalla famiglia e di conquistare un po’ di libertà. Lui aveva trent’anni, faceva il cameriere. Era alto, muscoloso e si muoveva tra i clienti come un gigante capace di superare ogni ostacolo per portare pile di piatti e bicchieri a destinazione. Quelle settimane ci siamo trovati a lavorare e ad abitare insieme.

Capita spesso che gli stagionali vivano in strutture fornite dai datori di lavoro, di solito inadeguate, fatiscenti o da condividere. In questo caso, l’alloggio era un monolocale in una mansarda in cui c’erano tre letti singoli: uno per me, uno per il Gigante e uno per l’Alto, un uomo sui quaranta, alto e magro con i capelli lunghi, che aveva la brutta abitudine di addormentarsi con la sigaretta accesa. Ero a disagio a vivere con due uomini che non conoscevo, molto più grandi di me. Con turni di dodici ore ogni giorno, tuttavia, mi ero detta che avrei passato a casa poco tempo e avevo provato a ignorare quella sensazione d’insicurezza.

Un giorno, le valigie dell’Alto non ci sono più. Si mormorava che avesse problemi di dipendenza dall’eroina e che se ne fosse andato. Da quel momento, nel monolocale siamo rimasti solo io e il Gigante.

Paralisi

Il Gigante era una persona politicamente impegnata, con precedenti penali, che ogni tanto farneticava di fare la rivoluzione o la marcia su Roma, come se fossero la stessa cosa. Ostentava la propria forza fisica con un retrogusto di prepotenza, un atteggiamento che nel locale in cui lavoravamo era considerato una virtù, una risorsa da usare nelle serate di maggiore affluenza per tenere a bada clienti ubriachi o fastidiosi.

Una sera io e il Gigante eravamo entrambi di riposo. Lui era sul suo letto e io sul mio. Poi lui si è spostato nel mio. E io non sono riuscita più a fermarlo.

È chiamato freezing, quella reazione per cui durante una violenza la vittima resta paralizzata, come gli animali aggrediti che si fingono morti per evitare di essere uccisi dai predatori. Nel freezing il suo corpo è paralizzato e lei è come assente, come se si sforzasse di essere altrove.

Doppia violenza
Una donna che subisce uno stupro a volte non reagisce. Per questo spesso non viene creduta o viene colpevolizzata. Ma la sua è una risposta involontaria dettata dall’istinto di sopravvivenza

Quando sono riuscita a divincolarmi ho cercato rifugio da un amico e per qualche giorno sono rimasta lì. Ho tenuto la valigia in auto e fino a fine stagione ho cercato ospitalità dove possibile per evitare di tornare in quella mansarda.

Quasi trent’anni fa non avevo le parole per spiegare quello che era successo. Se non c’è consenso è stupro, ma all’epoca io non lo sapevo e nessuno me lo aveva spiegato. La vita mi aveva insegnato, al contrario, con i fatti, se non con le parole, che una donna dev’essere conciliante, accomodante e possibilmente accondiscendente, perché dire no è un atto sovversivo che alle donne non è concesso.

La mia generazione è nata negli anni della grande trasformazione, quando furono riconosciuti il diritto al divorzio (1970) e quello all’aborto (1978), e fu abrogato il delitto d’onore (1981). Ciò che la legge stabiliva, tuttavia, nella cultura restava un tabù, anche per via di un modello educativo fondato sull’idea della brava bambina, della figlia obbediente e mansueta, che le generazioni precedenti avevano eletto a unico modello legittimo di femminilità. In questo contesto, per articolare quello che era successo nella società bisognava avere gli strumenti per capire che dire no era uno strumento di libertà, il mattoncino su cui le donne hanno costruito la loro autonomia, un istinto da celebrare.

Nella mia esperienza, tuttavia, dire no non era considerato così. Era l’atteggiamento provocatorio di un’adolescente arrogante che andava inibito con la disapprovazione, punito, represso e corretto. “Lo stato ideale proposto per le donne è la docilità”, scriveva Susan Sontag in un articolo del 1972. Questo ideale non prevede che la donna abbia una sua volontà ma che esista come contenitore di desideri e volontà altrui. Ai miei tempi la donna era il contenitore della volontà altrui e questo era ribadito con l’esortazione alla remissività e all’obbedienza con cui molte di noi venivano educate. È chiaro che, in questo contesto, strappare uno scampolo di libertà significava esporsi a situazioni di pericolo senza avere gli strumenti per affrontarle. L’alternativa ancora peggiore, tuttavia, era arrendersi a una cultura e a un ruolo sociale passivo e subalterno, cosa che per me non era possibile.

È così che, per molte di noi, affinare gli strumenti necessari è stato un processo lungo e faticoso, di cui il dibattito sul consenso è stato uno snodo fondamentale.

Il consenso, inteso come libertà di acconsentire o meno a una precisa azione o relazione, presuppone che la volontà di una donna sia riconosciuta socialmente come tale. È per questo che, ponendo al centro la questione del consenso, il movimento #MeToo è stato terapeutico. Viviamo ancora, spiega Judith Butler in Corpi che contano (Castelvecchi 2023), in un contesto culturale dominato da norme sociali patriarcali che relegano la volontà della donna in una posizione subalterna. Non è raro, dunque, che questa volontà sia oggetto di tentativi di sequestro da parte di chi vorrebbe ignorarla, imbrigliarla e sovrascriverla con la propria. Il concetto di consenso, in questo senso, è complesso, come spiega bene la filosofa Maria Borrello, perché si colloca all’interno di una lunga tradizione in cui “la disposizione al rapporto sessuale era considerata come un atto dovuto della donna per soddisfare il desiderio dell’uomo”. In questo senso, scrive la filosofa, la storia del rifiuto all’interno di un rapporto sessuale è recente e complessa. Per esempio, scrive Borrello, “accade non di rado, che una donna non dica ‘no’ poiché sente di non avere mezzi per porre fine al comportamento dell’uomo, o di non averne il diritto”.

Succede anche che una donna dica no, ma che il suo rifiuto non sia accettato, perché le diffuse rappresentazioni della donna come soggetto subalterno permettono all’uomo di “assumere una posizione direttiva rispetto alla relazione in corso e quindi escludere che quel ‘no’ sia da intendere in senso proprio, come un rifiuto”. In questi casi, si parla spesso di “disabilitazione illocutoria”, perché il fallimento del rifiuto passa attraverso la negazione della legittimità della volontà della donna.

Considerate tutte le affascinanti e tragiche complessità del dibattito sul consenso, è stata proprio la sua capacità d’illuminare le relazioni di forza che implica a essere terapeutica, perché la dimensione collettiva di questa discussione ha permesso, almeno a me, di capire che non era colpa mia. Tra tutte le cose che il consenso non è, la “forzata adesione a una richiesta posta entro condizioni che rendono difficile il rifiuto” sicuramente non è consenso. E questo, a volte, è sufficiente per capire e per perdonarsi.

Trent’anni dopo, è triste constatare che quello che è successo a me non è un caso isolato. Se guardiamo solo al settore alberghiero e della ristorazione, i dati recenti sono spaventosi: nove donne su dieci, tra quelle che lavorano in questo campo, hanno subìto aggressioni o molestie sessuali, contro una media di tre su dieci negli altri settori.

Da almeno quindici anni diverse inchieste provano a chiedersi come mai in questo settore i casi di violenza siano così alti. Le risposte sono sempre le stesse, e la più importante ha a che fare con un contesto culturale in cui la fortuna di un locale è spesso legata alla capacità di ammiccare alla possibilità dei clienti di soddisfare tutti i loro desideri.

È una cultura che non trova argine nelle norme culturali promosse dai datori di lavoro. E se poi aggiungiamo elementi come il sommerso, i pochi controlli o la ricattabilità salariale o abitativa (cioè la situazione in cui mi trovavo anch’io), non sorprende che l’obbligo del datore di lavoro di garantire l’integrità psicofisica del personale previsto dalla legge sia spesso disatteso, creando così le condizioni per traumi che hanno una durata molto più lunga di un lavoro stagionale.

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

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