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Bombay velvet porta a Locarno un grande affresco dell’India moderna

Una scena del film Bombay velvet di Anurag Kashyap. (Dr)

La piazza Grande di Locarno si è illuminata con uno splendido film indiano, Bombay velvet di Anurag Kashyap, incrocio riuscitissimo tra film d’autore e odierno cinema di Bollywood, ma senza il kitsch che contraddistingue la produzione odierna, e che non tralascia i risvolti politici nella sua rilettura di un preciso periodo storico.

In fondo, anche Thithi di Raam Reddy (Cineasti del presente) – più esplicitamente autoriale – è un incrocio tra Bollywood vecchia maniera, che spesso produceva film popolari di matrice neorealista, e un’opera d’autore e d’impegno civile. Entrambi i film servono per affrontare le geografie più o meno lontane, ma spesso più innovative, del cinema d’autore, che qui a Locarno trova un luogo di elezione per essere scoperto. Quantomeno dagli esploratori veri.

Anurag Kashyap era già stato rivelato nel 2012 a Cannes dalla Quinzaine des réalisateurs, cioè la sezione di Cannes dove storicamente si fa la maggior parte delle vere scoperte che poi andranno a nutrire le altre sezioni, concorso ufficiale compreso, e le selezioni degli altri festival.


Con Gangs of Wasseypur, il direttore della Quinzaine Édouard Waintrop aveva dimostrato di avere idee innovative e coraggio perché si trattava di far posto a un film indiano difficile da collocare: nella tradizione del cinema di genere popolare prodotto da Bollywood o nella altrettanto lunga tradizione del cinema indiano d’autore. Un cinema che vanta tra gli altri, è bene ricordarlo, personalità come Satyajit Ray (il Rossellini indiano, ormai figura centrale della storia del cinema, anche se da noi, come troppo spesso accade, semisconosciuta).

Inoltre era anche suddiviso in due parti di due ore e quaranta minuti l’una: se fosse stato un insuccesso, di critica o di pubblico, o entrambe le cose, sarebbe potuto essere un problema. Alla visione, parve un film di genere di matrice asiatica come quelli di una volta, non solo indiani ma anche giapponesi, riattualizzati nel gusto.

La lezione di storia è veicolata dall’eleganza di regia e fotografia

Del resto il regista pare innamorato del passato. Gangs of Wasseypur era un grande dramma familiare che assurgeva a dramma sociale, incentrato sul dominio delle gang mafiose nelle miniere di carbone, e che, a partire dal 1940, si estendeva su tre generazioni. Evidente l’intento di fare un film di accusa politica di situazioni che si sono incancrenite con il tempo, cercando di andare all’origine dei fenomeni.

Il Cotton club in versione indiana

SeBombay velvet è forse un po’ più commerciale e quindi bollywoodiano, anche per le numerose ma splendide musiche che rendono meno asciutto il film e ne attenuano la forza provocatrice, non si può negare che questo Cotton club indiano (che come nell’omonimo film di Coppola interpretato da Richard Gere prende il nome da un locale dove la grande musica jazz, loschi criminali e bellissime donne formavano un tutt’uno), sia un affresco storico forte e di grande interesse.

Anche perché il regista si è ispirato al saggio Mumbai fables dello storico indiano Gyan Prakash, il quale ha poi collaborato alla stesura della sceneggiatura.

Stavolta prende le mosse nel 1949, cioè due anni dopo l’indipendenza indiana, e trasforma il saggio storico, dove si lavora in profondità sui fenomeni politico-sociali ma anche culturali, in un vortice ipnotizzante di colori, musiche, movimenti di camera aerei. E la lezione di storia è veicolata dall’eleganza di regia e fotografia, elementi che trovano una loro poesia.

Nulla da spartire, insomma, non solo con il kitsch dell’odierno cinema di Bollywood, ma ancor più con quello di tanto cinema statunitense contemporaneo convinto che fare pittura nel cinema equivalga a realizzare uno spot pubblicitario molto lungo. Peraltro, qui, l’elegante assemblaggio dei dettagli davvero numerosi fa assurgere molte immagini a singoli affreschi all’interno di un più globale affresco storico.

Anurag Kashyap guarda invece al cinema statunitense del passato, quello in bianco e nero degli anni trenta, quaranta e cinquanta e quello di rilettura della società americana fin nelle sue fondamenta operato dalla New Hollywood dei settanta di Peter Bogdanovich, Brian De Palma e ovviamente Martin Scorsese. Fino a raggiungere in qualche modo Oliver Stone, il quale peraltro ultimamente ha lavorato con importanti storici statunitensi per alcune serie di documentari.

Forse manca nel finale un momento di poesia un poco più pregnante, vista l’intensa e travagliata storia d’amore che attraversa il film dall’inizio alla fine. Ma circa a metà della pellicola arriva un momento vero di poesia, una canzone cantata meravigliosamente dalla protagonista che pare un presagio. Nefasto per lei, ma di augurio per il cinema : la conferma di un grande regista per l’immediato futuro.

Appuntamento al prossimo articolo con Thithi, splendido ritratto corale di una famiglia popolare dell’India di oggi in cui si confrontano quattro generazioni.

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