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Kreuzweg è un film che non offre resurrezione 

Kreuzweg. Le stazioni della fede. (Outnow)

Si può ragionare su un film usando un dialogo tra un critico di cinema e una specialista di religione cristiana, o più esattamente una biblista? Forse è un fatto inedito, ma mi è sembrato interessante farlo dopo aver visto l’entusiasmo del pubblico che ha partecipato all’incontro con Steve Della Casa, di Hollywood party, e Roberto Nepoti della Repubblica, insieme al sottoscritto, dopo la proiezione del film Kreuzweg. Le stazioni della fede presentato alla rassegna Mondocinema 2015, nella giornata di apertura del festival di Internazionale a Ferrara.

Il film, ora in sala e già recensito da Goffredo Fofi, è impostato su quattordici piani-sequenza corrispondenti ad altrettanti capitoli-stazioni della via crucis. Così, una giovane biblista, Giulia Lo Porto, ha analizzato questa notevole opera d’esordio di Dietrich Brüggemann (scritta insieme alla sorella Anna, Orso d’argento alla Berlinale 2014, e vincitrice in Italia del premio Film della critica del sindacato nazionale critici cinematografici italiani). Insieme a Steve Della Casa abbiamo accompagnato le riflessioni di Lo Porto con domande (a volte provocatorie) e qualche osservazione.

Kreuzweg


Il caso di Maria, che ha 14 anni, si può leggere come un caso di follia indotto da un contesto preciso, una famiglia che cresce in ambito lefebvriano, quindi quasi in una setta, oppure come una lettura terrena del trascendente, a causa della sequenza finale del miracolo. Ma allora sembra un trascendente di cui aver paura. E Lo Porto ci sorprende con un’attenzione da biblista-entomologa che osserva queste formichine-personaggi che si agitano nel film:

Ambientando la vicenda di Maria all’interno di un contesto lebfreviano, l’autore corre il rischio di ‘limitare’ a un ambiente tradizionalista i pericoli insiti nel fondamentalismo cattolico. I meccanismi delle relazioni descritte, invece, a mio avviso, da un lato, appartengono ancora a una parte del cattolicesimo successivo al concilio Vaticano II, dall’altro, a qualsiasi relazione personale, sociale, religiosa che si costruisca su un dislivello intrinseco: qualcuno è superiore e qualcun altro, con modalità diverse, è subordinato, inferiore. Ovviamente se questo dislivello è giustificato dalla sacralità di uno rispetto all’altro, distanza e dipendenza si accentuano tragicamente. Dal mio punto di vista, che è quello di una biblista, Dio è il grande assente del film, non se ne parla mai realmente. Si parla invece di coloro che credono di esserne gli interpreti assoluti. Dio tace. Maria non entra mai in contatto personale con lui.

Kreuzweg però sembra muoversi su un equilibrio delicatissimo, su un crinale. Per esempio presenta un umorismo sottile, velatamente surreale. Nella tragedia c’è qualcosa di ridicolo, di assurdo. Forse si può definire come la registrazione – di una precisione quasi millimetrica – di una forma di svuotamento, di depauperamento della personalità. Un lavaggio del cervello. Ma secondo Lo Porto, oltre alla manipolazione della personalità, c’è anche una forma di ribellione da parte della protagonista, per quanto distorta:

In realtà Maria vive in un contesto familiare in cui non le è stato possibile essere se stessa. La preparazione alla cresima le fornisce l’occasione di esercitare la sua volontà con forza, attraverso il meccanismo della rinuncia. Le rinunce descritte nel film, anche con un senso di tagliente umorismo (come per esempio sacrificare la vista di un bel paesaggio), sono l’occasione che si palesa a Maria di poter esistere e, paradossalmente, davanti alla sua volontà di sacrificio cade anche l’imperativo di obbedienza alla madre (nel mangiare e nel coprirsi, Maria agisce in autonomia, senza badare ai consigli/ordini di nessuno). La ragazza esprime con passione il suo desiderio di sacrificarsi per Dio, per amore di Dio. In questo desiderio si manifesta tutto il disperato bisogno di amare ed essere amata, accolta, veramente guardata da qualcuno. Il film gioca sulla mistificazione religiosa della realtà: il sacrificio delle cose di poco conto, superficiali, a favore delle cose essenziali nasconde l’incapacità di lasciarsi raggiungere dalla vita e di stendere la mano verso di essa. In lei, pur così innamorata di Dio, non faranno breccia né l’amore del ragazzo né le parole di Bernadette, che pure Maria stima e a cui vuole bene. Il meccanismo sta in piedi fino a quando è lei a dare qualcosa, a sacrificarsi, a esercitare la volontà, ma quando è lei che deve ricevere qualcosa, allora si chiude, si irrigidisce, perfino davanti al cibo e quindi davanti alla vita.

La questione della rinuncia di Maria ci fa tornare alla sua reazione ambivalente, apparentemente a favore del credo religioso, innamorata di Dio, ma in realtà impegnata in una sorta di guerra contorta contro la madre e il suo ambiente, fino al sacrificio supremo, senza resurrezione, perché in Kreuzweg è assente la quindicesima stazione, quella della resurrezione:

Secondo me il regista mostra quel delirio di potere, tipico di una certa visione religiosa, in cui l’esercizio della volontà diventa la vera divinità adorata e in cui il sacrificio diviene l’unica misura dell’amore: più soffro, più amo. È una vera e propria perversione dei vangeli e della vicenda storica di Gesù. I vangeli, infatti, raccontano che Gesù si è sottratto alla morte tutte le volte che ha potuto, lo ha fatto fino a quando questa rinuncia non avrebbe compromesso il senso delle sue parole e la sua identità. Nel momento in cui il sottrarsi alla morte poteva comportare il rischio della negazione di se stesso rendendo vana la parola che aveva annunciata, egli si è lasciato catturare e portare alla croce. Era ben consapevole che le cose che diceva e insegnava generavano odio in coloro che non erano intenzionati ad accoglierlo. La cattura e la morte non sono state certo una sorpresa per lui, ma l’idea del sacrificio per il sacrificio è estranea al cristianesimo delle scritture. Il sacrificio di Cristo è unico, avvenuto una volta per tutte. Il regista non poteva che omettere la resurrezione dal suo racconto, perché non c’è idea di resurrezione o fede nella resurrezione se non in una vita e in una morte vissute nella verità, nella consapevolezza della propria identità, nella capacità di saper leggere e interagire con la realtà. Infatti il ‘miracolo’ del fratellino che comincia a parlare nel momento esatto in cui la ragazza muore è davvero raccontato come una tragica beffa. Il piccolo apre bocca per la prima volta ponendo a tutti la domanda fondamentale: ‘Dov’è Maria?’. Per me è il racconto di una identità mancata perché abusata proprio da chi aveva il compito di custodirla e farla crescere: in prima istanza la madre/la famiglia e in seconda istanza il prete e la comunità di fede. Ma perfino davanti alla morte, la madre tenta una mistificazione della realtà, parlando della figlia come di una santa, cercando una giustificazione della sua morte al di fuori dei fatti reali avvenuti proprio sotto i suoi occhi e delle sue responsabilità. La sequenza, invece, nella quale l’abuso è più evidente è proprio quella della confessione: il confessore si fa strada nell’intimità di Maria, domanda dopo domanda, cercando di toccare la dimensione più profonda della ragazza e creando in lei una malizia inesistente. Maria è così portata ancora una volta fuori del suo reale (e normale) sentire per essere trascinata nella dimensione di subordinazione.

Quella di Maria pare quindi la descrizione di un’insubordinazione vana, perché si ribella restando all’interno della logica nella quale è cresciuta. Forse tra le righe c’è anche una lettura della società tedesca, o quantomeno di una certa società tedesca, di regole ferree quanto insensatamente rigide, e la forma del film riflette questa teutonicità radicale (tranne che alla fine). E sulla rigida struttura narrativa del film Steve Della Casa ha un’opinione molto precisa:

Credo che la struttura narrativa, che ripropone la fissità delle vie crucis senza appunto nulla risparmiare dell’oggettistica moderna, sia fondamentale. Il dialogo tra la madre e la figlia si svolge sull’utilitaria della donna, con un suo continuo guardare nello specchietto retrovisore, un corretto uso delle frecce: quasi a simboleggiare la sua totale adesione ai modelli comportamentali del buon cittadino, uniti a un fanatismo e a una crudeltà mentale che assai poco hanno a che vedere con la religiosità. Gli scenari campestri che illuminano il cuore della ragazza ma al tempo stesso la spingono a compiere un sacrificio tutto interiore, e privo d’influenza sul mondo che la circonda (togliersi il cappotto e prendere freddo), può essere letto come una sorta di contrappasso: in un bel paesaggio, il fanatico non si sa beare di ciò che vede, ma sfoga il suo tormento interiore facendosi deliberatamente del male, un male che non porterà beneficio ad alcuno. Ma forse l’idea di regia più delicata e travolgente è la sequenza che si svolge dall’impresario delle pompe funebri. Ciò che maggiormente stupisce non è il buon senso popolare dell’uomo contrapposto allo sproloquio della donna, ma l’atteggiamento del padre. Sta zitto, come lo è stato per tutto il film. Ma non può trattenersi dall’alzarsi e compiere una piccola passeggiata nella stanza quando il delirio della moglie (che poi scoppierà in pianto) ha raggiunto livelli insopportabili. Una piccola, forse inutile, ma significativa, presa di distanza.

Il finale al cimitero con il movimento di camera ascensionale, dal basso verso l’alto rappresenta forse un anelito a qualcos’altro. La speranza di un altro Dio. Oppure è un modo di dirci che lo sguardo del film sui personaggi, appunto formalmente così “teutonico”, è quello del Dio dell’Antico testamento ma appunto non del regista. O anche entrambe le cose. E Giulia Lo Porto propone la sua interpretazione formale:

Interpreto lo sguardo finale come la necessità di un punto di vista differente rispetto a quanto accaduto, come a dire che non si può comprendere la vicenda se si rimane sullo stesso piano del racconto, dentro al racconto, ma che lo si deve guardare da una prospettiva diversa che apra a una visione integrale. Di fatto, gli unici che si rendono conto di quanto realmente stia accadendo sono Bernadette e il medico, coloro che non sono coinvolti nel meccanismo della mistificazione. Eliminando il corpo e il sentire a esso legato, viene meno il contatto con la vita reale, in tutte le sue dimensioni. Nel cristianesimo, ed è un tragico paradosso, Dio prende la carne umana per darsi agli uomini. Il cristianesimo soffre delle conseguenze millenarie di questa esclusione. Cioè, per chi crede in lui, è significativo che Gesù sia veramente uomo e veramente Dio. È la rivoluzione cristiana: c’è un/il corpo di mezzo. Ma già a partire dagli scritti del Nuovo testamento, che seguono i vangeli, si ha l’impressione che il corpo di Gesù, morto e risorto, diventi pian piano ingestibile, insopportabile. Si è cercato immediatamente di disinnescare la portata rivoluzionaria dell’incarnazione, di un Dio che nasce come tutti, vive come tutti, muore e patisce, come tutti. Questo ha infranto la distinzione tra sacro e profano presente nell’ebraismo che comportava la presenza di persone, i sacerdoti – i soli ai quali fosse consentito l’accesso alle ‘cose sacre’ – che sono figure di mediazione tra Dio e l’uomo. Ma Gesù essendo un Dio che nasce dall’utero di una donna, che impara a parlare, camminare, giocare, manda di conseguenza in frantumi quel sistema. Questa libertà di accesso, vicinanza a Dio, cominciata con Gesù, è però lentamente e ferocemente ridimensionata e di fatto ci si ritrova oggi con una ‘classe sacerdotale’ che ha ristabilito il concetto di mediazione tra Dio e gli uomini, la distinzione tra sacro e profano. Ma dove si spiritualizza eliminando la corporeità, la perversione mette radici poiché si perde l’aggancio alla vita nella sua interezza.

Per concludere si può dire che il finale rivela un gesto, cinematografico e insieme spirituale, diverso dal resto di un film che pare prossimo e contrario al cinema del maestro danese Carl Theodore Dreyer, alla visione e allo stile dell’autore di opere ormai mitiche come Ordet e La passione di Giovanna d’Arco.

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