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Fuocoammare raccontato da Gianfranco Rosi

Fuocoammare. (Studio Punto e Virgola)

Gianfranco Rosi ama il tempo e gli esseri umani. Il tempo come luogo metafisico e come luogo concreto per apprezzare e capire gli esseri umani che vivono in un determinato spazio. I film di Rosi sono un viaggio nello spazio-tempo dominato da esseri umani della quotidianità, più o meno ai margini. Sono film d’astrazione nel concreto, in sintonia con alcuni dei più giovani e e interessanti registi che lavorano tra fiction e documentario di poesia, da Pietro Marcello a Michelangelo Frammartino. Questo penso parlando con Rosi in trasferta a Roma, poco dopo la proiezione a Berlino di Fuocoammare e poche ore prima del conferimento dell’Orso d’oro, premio che arriva come la conferma di un percorso già avviato dal Leone d’oro ricevuto nel 2013 per Sacro Gra.

Due premi che dimostrano che il cosiddetto “film da festival” non esiste.
L’accoglienza a Berlino è stata positiva al di là di ogni previsione. Non me l’aspettavo. Uno che filma la morte reale è una cosa terribile, davvero un azzardo. Però quando l’ho messa nel film mi sono sentito con la coscienza pulita. Metterla era fondamentale, ma pensavo che avrebbe creato più divisioni. Invece non è successo nulla, forse perché nel film non c’è gratuità, è come una conquista: pian piano arrivi accompagnato al momento della tragedia. E devo dire che a Berlino c’è stata proprio un’accoglienza incredibile al film, sia da parte del pubblico sia da parte della stampa estera. Il pubblico ha addirittura applaudito in sala in mezzo al film, durante il momento della visita con Bartolo. Questo è stato bellissimo. E poi la stampa estera, che mi pare abbia dato a Fuocoammare un’accoglienza positiva all’unanimità.

Fuocoammare


Sullo sfondo c’è ovviamente un’Europa politica incapace di gestire un’emergenza umanitaria.
Chiaramente il film ora sta assumendo una dimensione politica, a prescindere dalle mie intenzioni. Questo succede perché il tema è talmente forte che andando a Berlino Fuocoammare diventa un film politico. Ma nel film non c’è nessuna intenzione del genere, il film è politico per via del tema. Ma la mia non è un’inchiesta.

L’incontro con l’isola

Riuscire a far un film insieme diretto e metaforico è la cifra stilistica di Rosi. In questo caso lo fa su un tema di un’attualità politica molto stringente. Bel paradosso, visto che è stato a lungo regista di culto ma privo di distribuzione nelle nostre sale. Un cinema sperimentale che ha sempre evidente la volontà di ricercare l’umano mediante situazioni estreme di vita, o collocandosi in prossimità della sua negazione, la morte. Tutti i film precedenti del regista – un po’ apolide: nato in Eritrea, si è diplomato a New York, ha vissuto a lungo negli Stati Uniti e ha la doppia nazionalità – sono nati da suoi incontri personali, fin dal lontano 1993: l’India del barcaiolo Virgilio-Caronte di Boatman, l’articolo del giornalista Charles Bowden da cui è nato El Sicario, room 164, il deserto statunitense per i marginali della base militare dismessa filmati in Below sea level (tre opere riunite da Feltrinelli in un dvd con un libretto di interventi critici). Dopo Sacro Gra, realizzato su commissione, Rosi sentiva la necessità di fare di nuovo un’opera propria. Ma è arrivata la proposta dell’Istituto Luce di fare un corto su Lampedusa subito dopo la tragedia del 3 ottobre 2013.

Il suo lungo soggiorno sull’isola ha dato origine al lungometraggio, dove emerge la capacità di saper far fiorire le situazioni e dalle situazioni il saper far fiorire dei personaggi e dai personaggi far fiorire ancora situazioni adatte al film.
Se fossi rimasto a Lampedusa tre settimane non sarei stato in grado di fare il film. Il tempo è sempre fondamentale nello sviluppo dei miei film. Il film viene scritto girando, non c’è mai una cosa scritta su carta. Fuocoammare è come una partenogenesi, un film che si è autoindotto, autofecondato. Nessuna scena era mai stata scritta, concepita, prima che si palesasse davanti alla cinepresa. E qui sta la meraviglia: quando dico che il mio film è un documentario è perché tutto nasce sempre dalla realtà. Io le chiamo le deità dei documentaristi: qualche volta ti regalano delle cose totalmente stupende, per quello che accade davanti alla cinepresa. L’incontro tra Bartolo e Samuele, tra il ragazzino e il medico, io credo che nessuno scrittore, nessun sceneggiatore, nessun attore, nessun regista potrebbe metterlo in scena in quel modo lì. Per quello dico che nasce come un miracolo davanti alla lente. Ed è quello che mi stimola nel mio lavoro. La realtà s’impone con una forza che va al di là del pensiero.

Gli incontri sono la capacità di capire le persone e le situazioni che hai davanti, lasciare che si costruiscano da sole e cogliere al momento giusto quelle che hanno un potenziale metaforico più o meno grande.
Sono sempre situazioni di gioco. Quando eravamo in un posto con i cactus a costruire la fionda, c’era una faccia già fatta da qualcuno, e i ragazzini hanno preso questo come spunto: è diventata l’invenzione di un’invenzione, e ogni volta veniva fuori una metafora fortissima. Il film è un po’ uno stato d’animo: sono delle sensazioni, delle emozioni costanti che ci riportano da un’altra parte, a qualcosa che anche noi lentamente scopriamo: l’occhio pigro, l’ansia, l’esercito, la guerra, il taglio del cactus che poi viene rappezzato con lo scotch. Sono tutti elementi che ci riportano alla nostra impossibilità di agire, di leggere, di guardare, di avere lucidità nei confronti di quella che è una delle più grosse tragedie a imporsi di fronte ai nostri occhi. E questi sono incontri sempre un po’ fatali. Situazioni e personaggi che nascono per caso e poi, nell’arco del tempo delle riprese, diventano una necessità. Sono come dei piccoli innamoramenti: ho incontrato prima Samuele e dopo cinque minuti ho saputo che sarebbe stato parte del film.
Non sapevo con quale estensione, con quale forza, ma dopo cinque minuti sapevo che sarebbe entrato nel film. Poi c’è stato l’incontro con Bartolo, il medico: Bartolo è anche un po’ la chiave, l’unico che ha il contatto con il quotidiano, con il mondo oltre Lampedusa. E poi c’era sempre l’idea di raccontare il viaggio di una nave. Queste tre storie erano il punto di partenza, un’idea molto precisa che poi è stata rispettata nel film. Ma gli incontri sono sempre casuali, anche se poi diventano parte della narrazione del film. Il tempo del film è il tempo dei personaggi, la storia dei personaggi. A Berlino qualcuno mi ha detto: le parole chiave di questo film sono tre: l’amore, la passione e la compassione. La compassione del medico, l’amore di Maria per il marito – quando fa il letto, prepara il pranzo – e la passione di Samuele. Perché Samuele ci trasporta verso la sua passione. O anche attraverso la sua impossibilità di confrontarsi con il mare, di vivere in un’isola di pescatori come Lampedusa e soffrire il mare.

Gianfranco Rosi sul set di Fuocoammare.

Il primo incontro, però, è stato con l’isola stessa…
Paradossalmente, appena ci arrivai, l’incontro fu abbastanza sorprendente perché a Lampedusa, conosciuta al mondo come un’isola dei migranti, di quest’ultimi non c’era assolutamente traccia. Il centro d’accoglienza era chiuso per ristrutturazioni. Ho incontrato così quest’isola trasformata, vuota, con l’eco della tragedia, con l’eco della migrazione, con qualcosa che accadeva “oltre” Lampedusa. Il mio approccio è stato realmente all’isola in attesa di qualcosa. Quando ho cominciato a girare avevo creato questa totale separazione: fondamentale, perché il primo sguardo è stato appunto il racconto dell’identità dell’isola in modo che non fosse soltanto un contenitore conosciuto attraverso l’immigrazione, ma anche attraverso il suo tessuto umano. Il film scorre attraverso tre livelli di narrazione, tre storie che s’intrecciano ma non s’incontrano mai: c’è il centro di accoglienza, uno spazio vuoto in mezzo all’isola, c’è la storia di Samuele e degli altri personaggi, e poi c’è la storia del salvataggio in mezzo al mare, questa nave che parte fino all’incontro con la tragedia.

In effetti il personaggio di Samuele sembra racchiudere in sé stesso una potente metafora: è al tempo stesso la forza e la fragilità della vita. Ed è la metafora di tutti i bambini dei migranti che non hanno un futuro felice o che addirittura muoiono durante queste traversate. E c’è questa sua ansia: l’ansia di Samuele alla fine è anche l’ansia nostra, quando ci rendiamo conto della portata di questa tragedia.
Certamente. Infatti non è un caso che dopo la sequenza della visita medica con Bartolo, con la sua ansia arriva la tragedia nel film. Si apre il portellone della nave e da lì… Raccontare la tragedia non è stato facile nel film. A Berlino mi chiedevano: qual è la differenza tra il fare un film come il tuo e un’inchiesta? Chi fa un’inchiesta o un documentario va sempre a occuparsi del disastro, della catastrofe, il momento in cui accade. Io sono arrivato sull’isola con l’eco di un disastro, poi pian piano nel corso del tempo ho fatto il mio incontro con il disastro. E quando l’ho incontrato per me si è come chiuso il film. Ho detto: non posso più aggiungere nulla, adesso devo montarlo, devo consegnare questo materiale ad altri. Il film è una testimonianza. Una testimonianza dei nigeriani all’interno del centro. Lì c’è la sintesi di tutte le storie della nave.

Sì quella specie di strano monologo.
Un rap-gospel!

Sembra che lei abbia voluto fare un film fortemente simbolico, ne è un esempio la nave, metafora della distanza del nostro mondo freddo, asettico e ipertecnologico, che punta alla documentazione pura: come quando si vedono i cadaveri tirati fuori, per citare la scena più forte, o l’impegno sincero dei soccorritori. Ha voluto documentare la tragedia attraverso un punto di vista sensibile che non è né quello del reportage giornalistico, che cerca di rappresentare tutti i punti di vista, né quello del reportage sensazionalistico, che satura con l’eccesso d’immagini e talvolta specula. In che modo quest’approccio si è costruito nelle varie fasi di passaggio – se non prima, visto che non c’è alcuna sceneggiatura – in termini di regia e montaggio? Perché comunque per filmare la nave così bisogna deciderlo prima.
Sulla nave ho fatto due viaggi di venti giorni. Nel primo non ero in prima linea, ma sapevano che non ci sarebbero stati incontri in mezzo al mare, è servito un po’ a testarmi. È stata la possibilità fondamentale per entrare in contatto con l’equipaggio, con il comandante, con gli ufficiali, con il fatto stesso di essere su di una nave da guerra. E di avere quindi anche un’adesione da parte loro nel filmare. Così il primo viaggio è consistito nel filmare il vuoto di questa nave che parte verso il mare. Pensavo sempre che un giorno ci sarebbe stato un incontro in mezzo al mare. E l’ho filmata come un fantasma. E mi chiedevo: prima o poi in mezzo al mare succederà qualcosa? Ci sarà quest’incontro? Nel secondo viaggio eravamo in prima linea, ci sono stati tanti soccorsi, quasi un po’ di routine, finché si è palesata la tragedia davanti agli occhi. In realtà, non pensavo che sarebbe stato così drammatico. Ero sul gommone e arrivano i morenti sulla barca. E lì mi sono trovato davanti alla tragedia vera: dovevo filmarla o scappare. Chiaramente ho sentito il dovere di testimoniarla. Ma all’inizio non volevo scendere nella parte sottostante. Invece il comandante mi ha detto che era come non filmare la tragedia, il mondo doveva sapere questa cosa.

I suoi film vanno tutti all’estremo dell’umano. Come ne esce in termini interiori e professionali?
Be’, sicuramente in me si è rotto qualcosa nel momento in cui io sono entrato nella stiva della barca a filmare. Lo saprò tra qualche settimana, quando finisce la girandola. Per ora sono ancora nell’adrenalina. Ma non sarà facile quando comincerò a prendere le distanze un po’ da tutto. Non so cosa succederà.

Mi pare che questo film le dia uno slancio per affrontare altre tematiche importanti al di fuori del territorio italiano.
Sì, adesso sento l’esigenza di tornare a dei film girati fuori. Mi sono già un po’ allontanato dall’Italia con l’isola, avvicinandomi all’Africa. E chissà, magari il prossimo passo sarà lì.

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