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Il Locarno film festival si apre con il cinema più contemporaneo

Piazza Grande durante il Locarno film festival. (Massimo Pedrazzini, Locarno Film Festival)

La settantacinquesima edizione Locarno film festival si apre in piazza Grande con un vero fuoco d’artificio cinematografico. Si potrebbe temere che lungo le poco più due ore di durata si riveli gradualmente un fuoco fatuo malgrado l’indubbia abilità di messa in scena. E invece crediamo che resterà negli annali del cinema Bullet train, il film d’azione/thriller di David Leitch – in uscita nelle sale italiane il 25 agosto – che tra i molti e variegati interpreti ha il suo perno in Brad Pitt.

Abbiamo scritto “messa in scena” proprio perché questo film è fondato sulla messinscena, intesa sia come impostura che come rappresentazione, e questo da parte di tutti i personaggi, compreso il killer interpretato da Brad Pitt, peraltro uno dei più simpatici. Ma è non meno un film di messa in scena intesa come regia, anzi soprattutto di regia, benché l’ottima sceneggiatura sia basata su un romanzo di Kotaro Isaka.

Ambientato dall’inizio alla fine sul “treno più veloce del mondo” e quasi mai al suo esterno in maniera prolungata fatto salvo per alcuni flashback, è difficile capire bene dove siamo – anche se è evidente che si tratti del Giappone – se non in una sorta di globalizzazione dell’immaginario che viaggia a tale velocità da portare ad una forma di astrazione. Per lo spettatore l’effetto di straniamento che ne consegue è forte. Perché Bullet train è una bandiera dell’ibridazione di stili e geografie cinematografiche opposte.

Le sequenze d’azione della prima mezz’ora costituiscono una sorta di overdose psichedelica dell’estetica pop giapponese, già di per sé molto carica; inoltre ogni vagone ha un suo climax, un po’ come delle videoinstallazioni. I killer, i capi-clan, le persone armate, sono sia nere che bianche, sia occidentali che giapponesi. Nell’ampio cast del film che David Leitch ha anche coprodotto, figurano attori emergenti del nuovo cinema statunitense come Aaron Taylor-Johnson (ospite a Locarno), grandi nomi della Hollywood degli anni novanta come Sandra Bullock, oppure ancora interpreti di fama del cinema giapponese che tuttavia hanno già fatto la loro apparizione in numerose produzioni statunitensi, come Hiroyuki Sanada, maestro di arti marziali.


Ma è ibrido anche perché si passa dall’azione al drammatico, dal thriller al comico – spesso in versione cartoon – dal film di kung-fu al manga – spesso demenziale – in una sapiente alchimia degli equilibri e dei dosaggi dei vari registri narrativi. In realtà pare di essere in uno di quei film folli (ma ben riusciti) del cinema di genere di estremo oriente – di Hong Kong o coreani, tailandesi o appunto giapponesi – che negli ultimi venticinque anni il pubblico italiano ha potuto scoprire su grande schermo grazie al Far East Film Festival di Udine e non più solo sui vari supporti tecnologici (tv, dvd, ecc.). Un cinema di genere rivolto al grande pubblico ma spesso folle, surreale e che tende a spingere tutto al parossismo, kitsch compreso. Come qui. Solo che cineasta e produzione sono statunitensi come buona parte degli attori e delle attrici.

Non si può che esser critici verso certo cinema che da anni lavora sul patinato pubblicitario e svuota d’interiorità e profondità l’immagine, il cui paradigma sono i pur talentuosi fratelli Scott – talentuoso soprattutto Ridley (Alien, Blade runner) piuttosto che Tony (Top Gun, Giorni di tuono), almeno agli inizi – che agli albori degli anni ottanta del cosiddetto “riflusso” (come venne definito) costruirono l’estetica della pubblicità degli anni a venire, fondata sul patinato e la saturazione dei colori, che ha poi tracimato praticamente in tutti i settori e non solo nel cinema.

Però qui siamo oltre tutto questo. Che lo riconoscano o meno, autori e produzione sembrano consapevoli che situazioni e personaggi sono immagini ormai scariche di una sostanza che fu. E che ritrovano senso, paradossalmente, solo perché i grandi dolori del passato di questi personaggi ci lasciano del tutto indifferenti: per un effetto di contrasto questo passato doloroso, richiamato con flashback di un Sudamerica da spot Barilla rivisto in versione truculenta, restituisce forza e consistenza ai dolori del presente, particolarmente vero per la coppia di fratelli mercenari, uno nero e uno bianco.

Sono come il Willy il Coyote dei geniali cartoni animati di Chuck Jones, il quale dopo esser rimasto schiacciato e appiattito come una sogliola schiantandosi in un burrone, ritrova subito dopo la bidimensionalità originaria, qui intesa come consistenza, densità e più semplicemente umanità in opposizione alla vanità e alla paura della morte – qui denominata “destino” – che si nasconde dietro alla frenesia fine a se stessa della velocità per la velocità.

Il treno pallottola ha come sconquassato il sistema spazio-temporale delle estetiche del cinema e degli immaginari a loro connesse, ed è fuoriuscito in una dimensione “altra” che comprende come un ritorno alle origini, pur all’interno dell’ibridazione. Insomma, Bullet train non somiglia a nient’altro visto finora ad Hollywood ed è una buona notizia per la macchina dei sogni statunitense, ormai troppo aggrappata a declinare seguiti dei grandi successi dei decenni precedenti, da Matrix ad Avatar, forse per il sopraggiungere di una malcelata insicurezza.

Quanto al Concorso Internazionale, ci ha già riservato un grande film inatteso, ipnotico, forse un capolavoro: il portoghese Nação valente (Nazione valorosa, o coraggiosa) di Carlos Conceição.

Immerso in splendidi e possenti paesaggi (mai patinati), spesso notturno, molto visivo e poco parlato, onirico e realista, riesce ad appassionare lo spettatore su eventi spesso minimali riuscendo in tal maniera a dare l’impressione di essere, tra le altre cose, un film d’azione. Si tende spesso a dimenticare che il passato coloniale del Portogallo non riguarda solo il Brasile ma anche l’Angola, e soprattutto anche un altro continente oltre a quello americano: l’Africa.

Qui di africani non ce ne sono poi molti, primeggiano i soldati bianchi, malgrado l’ambientazione nel 1974, quando cioè la dittatura di Salazar crolla liberando anche questo territorio, anche se poi con l’indipendenza arriveranno altre dure prove.

Il film è un condensato di suggestioni e atmosfere da grande lavoro visionario e insieme “terzomondista” degli anni settanta, nonché – come rivendicato esplicitamente nella nota di regia – una potente e originale metafora della circolarità temporale dei vari fascismi dai quali noi occidentali sembriamo incapaci di voler uscire, ancora imprigionati da schematismi mentali fatti di false certezze e retorica esangue. Ma il film vola talmente alto da allargare la metafora ai tanti muri, tanto mentali che fisici (di Trump, di Israele, ecc.) fino a superarli e a lasciarseli dietro come ridicole vestigia di un’ossessione malsana in uno dei finali più belli visti al cinema negli ultimi anni. E nel creare una metafora esplicita e sottile produce (sotto questo aspetto un po’ come in Bullet train) un cortocircuito spazio-temporale tra la staticità del 1974 e il mondo ultrarapido dei telefonini di oggi. Raramente l’assurdità di certi ragionamenti sociali avrà trovato una forma filmica così perfetta nel rendere evidente una prigione mentale che ci opprime tutti. E Conceição, memore dei raffinati film horror in bianco e nero di Jacques Tourneur (Il bacio della pantera, Ho camminato con uno zombie…), nella sua riflessione storica fatta della stessa sostanza dei sogni contigui agli incubi, lavora di fine cesellatura per mostrare la violenza il meno possibile, nel lavorare sul fuori campo nel sottrarre, rappresentando gli orrori coloniali, paradossalmente per meglio mettere in scena quell’orrore, quella mostruosità storica che non vuole morire.

Nação valente è la conferma che la cinematografia portoghese è la più originale e vitale d’Europa e di conseguenza il nostro augurio al film è che possa trovare una buona distribuzione italiana.


Sempre nel Concorso c’è Stone turtle di Ming Jin Woo, che lavora su allegorie e miti arcaici per rappresentare l’oppressione della donna in Malesia, tra ingiustizie, drammi e omicidi. Le continue sequenze oniriche di morte e resurrezione in un’isola sperduta raccontano la difficoltà di rompere una ciclicità fatta di vendetta invece che di giustizia, che finisce per essere speculare a quella della perenne oppressione maschile, o patriarcale. Tema molto forte anche in un altro bel lungometraggio, l’indiano Ariyippu di Mahesh Narayanan, dal registro più realistico ma dalle belle atmosfere quanto fine nella rappresentazione di psicologie e comportamenti in un difficile contesto sociale e lavorativo, quello di immigrati nel Kerala della pandemia.

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