×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

Quattro ipocrisie da sfatare sui fatti di Gorino

L’ostello Bar Gorino, Ferrara, il 25 ottobre 2016. (Sandro Rizzo, Lapresse)

Diamo il giusto peso a cose e parole. Si trattava di dare alloggio (cinque stanze su trenta di un ostello) per quattro mesi – cioè per l’inverno, quando l’attività turistica è inesistente – a dodici donne, una delle quali incinta. Di tutte le parole dette per giustificare l’ostilità della comunità di Gorino, le più disumane, e perciò più rappresentative, sono state: “Queste donne avranno pure degli uomini. E noi donne di Gorino siamo per molte ore sole in casa, perché i nostri uomini fanno i pescatori”.

Tradotto: non è possibile che siano donne dotate di capacità di discernimento perché sono cose, di proprietà di migranti maschi, quindi stupratori. In realtà gli uomini di queste donne fuggite dalla Sierra Leone e dalla Nigeria sono detenuti e torturati nelle carceri, oppure ormai cadaveri sulla strada della fuga nel deserto. Ma tant’è: ai presidianti è bastato far balenare questo argomento, accanto all’altro, quello dell’esproprio delle seconde case, cioè della minaccia alla roba, agli sghei – si sente la cadenza gretta nella parlata di questi valligiani che antepongono la roba alla vita umana. E allora la prima ipocrisia da rimuovere è quella del “non siamo razzisti (ma…)”: razzismo e fascismo non sono etichette vuote, ma conseguenze di comportamenti concreti, e quello che è successo a Gorino è razzismo e fascismo.

Seconda ipocrisia da sfatare: il mito dell’Emilia-Romagna accogliente e solidale. Accoglienza e solidarietà sono state, nel passato, non generiche opere di beneficenza, ma comportamenti radicati nelle classi sociali sfruttate. Come lo fu l’accoglienza di migliaia di figli di contadini pugliesi in fuga dalla miseria da parte dei contadini delle cooperative nelle campagne del secondo dopoguerra: solidarietà tra sfruttati, per la quale si poteva dividere il pane. Inutile, allora, cercare solidarietà negli animi pervasi dall’individualismo proprietario: come quando c’è la piena del Po, e ogni paese preserva le sue golene scaricando l’acqua sul paese successivo, così i migranti, per carità vanno aiutati – ma non qui, nei paesi accanto (che, per inciso, hanno accolto le dodici migranti).

Responsabilità precise
Così come è inutile rievocare la memoria delle passate miserie, quando da questi paesi della bassa ferrarese i miserabili migravano verso il Veneto o verso Ferrara, occupando tuguri abbandonati, anfratti nelle mura rinascimentali, edifici in rovina come quella caserma occupata dagli sfollati di cui parla Bassani all’inizio del Giardino dei Finzi Contini. A uscire dalla condizione di miserabile, a volte, qualcosa si perde: per esempio, quell’umanità che in altre esperienze di accoglienza si mostra ancora.

Terza ipocrisia: la spontaneità della rivolta razzista. Sarà pure stata spontanea, la scintilla: ma la prateria era già stata innaffiata, con responsabilità precise. A partire da forze politiche – la Lega in primo luogo, ma non solo – che da tre anni creano e cavalcano ogni sorta di “emergenza”, dai nomadi ai migranti.

Ma anche alcuni organi d’informazione, che nei mesi scorsi non si sono fatti scrupolo di pubblicare senza alcuna verifica notizie utili (a voler essere buoni) a vendere qualche copia in più – fotografie vecchie di quattro anni accreditate come odierne, per dirne una – che hanno contribuito a infiammare il clima. A cui vanno aggiunte le pagine social, dalle quali ieri si soffiava sulla Vandea gorinese con bufale a effetto sulla minaccia di invasione – “Non solo 12 donne, ma anche 50, 60 uomini…” – e ancor prima si inneggiava all’affondamento dei barconi in mare, o si definiva la marina militare “scafismo di stato”.

La comprensione delle cause del rancore delle piccole comunità non può trasformarsi in un alibi per una loro assoluzione

Ciò che inquieta è lo scivolare dei mezzi d’informazione nel gorgo del sottobosco pulp. Le tecniche e le dinamiche di questo scivolamento sono state oggetto di studi importanti – Morti di fama di Loredana Lipperini e Giovanni Arduino, Tabloid inferno di Selene Pascarella, L’odio online di Giovanni Ziccardi – che, nel descrivere le narrazioni tossiche che circolano nella rete o nel sottobosco giornalistico, spiegano di fatto come sia la narrazione a costruire realtà che a loro volta richiedono narrazioni orientate alla ricerca del “nemico”.

E allora sfatiamo l’ipocrisia del “non ci sono, non possono essere due Italie” e quella del “comprendere le ragioni”. Le due Italie esistono, e costringono a prendere posizione, piaccia o meno.

Esistono, certo, ragioni profonde per spiegare il rancore delle piccole comunità periferiche, che si percepiscono escluse, se non vittime, dai processi globali che sembrano scavalcarle: su questo ha scritto cose tutt’ora attuali Aldo Bonomi nel suo Il rancore del 2008, riprese di recente in La società circolare.

Ma la comprensione delle cause di lungo periodo non può trasformarsi in un alibi sociologizzante per tradurre la comprensione in assoluzione. Perfino Benedetto Croce – ci mise del tempo, ma alla fine lo capì – fu capace di dire che per quanto il fascismo fosse un prodotto della storia ciò non comportava la sua accettazione morale e politica.

Una chiara distinzione
Di fronte a parole e pratiche che non hanno niente di umano, non ci può essere alcuna condivisione, ma solo una chiara e franca contrapposizione. Così come non può esserci alcuna compromissione con le ipotesi di chi, novello Filippo Corridoni, si illude di poter organizzare le comunità del rancore, i “nuovi barbari”, le opposizioni distruttive.

In verità, Gorino mostra tutta intera la faccia di quel livore comune alla middle class rurale britannica e al ceto sociale che negli Stati Uniti sostiene Trump. Gli abitanti di Gorino hanno paura dei migranti, o meglio della loro ombra (ma non della propria ignoranza) perché vivono in luoghi dove i migranti non ci sono, e difendono con ferocia la loro pervicace intenzione di rimanere immobili in un mondo attraversato da mutazioni irreversibili che si sono messe in moto un quarto di secolo fa, e che richiederanno processi risolutivi di altrettanto lungo periodo e non i palliativi con i quali il ceto politico italiano fa quello che rimprovera all’Europa, cercando di inserire un processo epocale in una precaria provvisorietà, come se fosse un fenomeno passeggero.

Provvisorietà che, beninteso, viene buona per creare forza lavoro da sfruttare in modo disumano, mantenendola al tempo stesso incollata a quel pavimento appiccicoso che impedisce alla forza lavoro migrante di sollevarsi all’altezza del lavoratore indigeno.

I fatti di Gorino ci costringono a tracciare una chiara distinzione tra due campi, a riconoscere la necessità di un conflitto di lungo periodo non solo politico ma soprattutto etico contro chi, agitando le bandiere e i randelli dell’intolleranza, contribuisce a mantenere tale e quale quel mondo di cui crede di contestare le dinamiche, e dunque contribuisce ad accrescerne l’ingiustizia.

Non è un malcompreso “buonismo”. Fare dell’indignazione un’arma di civiltà, dunque un’arma politica, è l’unica risposta possibile e praticabile.

pubblicità