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The zero theorem, l’incasinato pronipote di Brazil

Christoph Waltz in The zero theorem. (Outnow)

Il problema di Terry Gilliam sembra essere quello di avere una sceneggiatura buona e dalle idee condivisibili, sulle quali intervenire rispettandone però la sostanza. In altre parole, una base forte su cui potersi sbizzarrire immaginando ambienti, movimenti, colori e trucchi, dando sfogo a una visionarietà non gratuita.

Gli è andata bene non solo con i due bellissimi film della banda geniale dei Monty Python diretti insieme a Terry Jones, quelli sul sacro graal e sul senso della vita che hanno segnato la sua vocazione di regista. Brazil, La leggenda del re pescatore, L’esercito delle 12 scimmie, Paura e delirio a Las Vegas, ma anche, più tardi e in mezzo a film più fiacchi, Parnassus, sono opere che hanno segnato il gusto di un’epoca costituendone una delle punte più alte nella logica del fantastico motivato, del fantastico che parla del nostro tempo e ne sa dire e mostrare le direzioni e l’assurdo.

Alle spalle di quest’americano trapiantato in Inghilterra c’è stato fin da subito il magistero del romanzo di George Orwell 1984, rivissuto sul filo del paradosso più spinto e di una comicità sbalordita e spaventata. Ma il 1984 è passato da tempo e la fantascienza è diventata realtà, anzi iperrealtà, e forse è anche per questo che Gilliam non impressiona più molto: siamo diventati personaggi dei suoi film, la “rete” avvolge anche noi. In breve: Terry Gilliam è troppo intelligente (o lo è stato) per essere accolto tra gli pseudomaestri dell’alienante cinema contemporaneo, ma forse non lo è più abbastanza per essere venerato (per un po’ di tempo lo è stato) come maestro di visioni filosoficamente motivate, all’altezza del precipitare degli eventi e delle condizioni.

Un cinema che il sistema non accetta più

Questo spiega come mai un film come The zero theorem, ambiziosissimo e ricco di immagini formidabili – che per gran parte rimandano a realtà già in atto – sia rimasto fermo dal 2013 presso la nostra distribuzione, e venga presentato soltanto adesso, in piena estate, con doverosa aria condizionata. Sul fondo, la constatazione è semplice: un cinema costoso e visionario, intelligente, radicale, d’autore, un cinema, per dire, alla Kubrick o alla Fellini, da tempo non è più possibile, il sistema produttivo non lo accetta più. Terry Gilliam, ultimo intellettuale del cinema a credere alla possibilità di collegare Méliès e Camus, è oggi un regista che fatica a fare i suoi film, e ha potuto fare Zero soltanto grazie a una coproduzione tra Regno Unito e Romania. Sono note le disavventure di altri suoi progetti, primo fra tutti un Don Chisciotte che si annunciava formidabile, un personaggio centrale della sua e nostra cultura: contro quanti mulini a vento, che sono in realtà mostruosi e cattivissimi giganti, non si deve oggi lottare, o si è costretti a rinunciare a lottare?

Eppure non basta questo a spiegare la scarsa eco del suo ultimo film, che aveva le carte in regola per sconcertare e far discutere quanto Brazil o L’esercito delle 12 scimmie. Si ritorna al discorso della sceneggiatura. Invece di aggiungere, Gilliam, stavolta come altre volte, avrebbe dovuto sfrondare e chiarire. Non è una grande sceneggiatura, quella verbosissima di un tal Pat Rushin a cui Gilliam ha soltanto aggiunto altra chiacchiera. Gilliam si è invaghito di un suo racconto, The call, la chiamata, storia di un domani che estremizza l’oggi appena un po’, in cui un comune uomo orwelliano è usato da una grande azienda e dal suo super manager perché potrebbe arrivare al cuore del Teorema zero, cioè di una spiegazione definitiva del senso della vita. Questo perché, per contrasto o per vicinanza, è ossessionato da una chiamata poco scientifica.

In partenza tutto appare intrigante, e debitamente inquietante, ma finisce risucchiato in un buco nero

Forse Rushin o Gilliam hanno visto troppe volte Brazil ma stavolta non è l’aspetto sociologico di quel film ad appassionarli, ma proprio l’ultra-scientifico (e l’ultra-teologico). Nella vita del brav’uomo Qohen, parente lontano dello Winston Smith di Orwell, arriva l’amore, come era già successo al suo fratello maggiore o al suo antenato, Sam Lowry, nel film di trent’anni fa. Ma si tratta di un amore solo virtuale. Arriva anche l’amicizia non virtuale di un ragazzino iperdotato in fatto di “navigazione”, figlio del suo capo. E per i tre quarti del film si è incuriositi o inteneriti dai tormenti del signor Qohen che aspetta la rivelazione personale e cerca per conto terzi la risposta collettiva e definitiva sul suo schermo, dentro una casa-cattedrale piena di obiettivi che lo osservano, uno dei quali è piazzato al posto della testa di un crocifisso. Tutto appare in partenza intrigante, e debitamente inquietante, ma finisce nel buco nero delle galassie in cui lasciarsi risucchiare, come accadrà prima o poi all’universo mondo: il nulla preferibile al di-qua. Dove, però, chissà… La voce della ragazza nei titoli di coda lascia sperare. Riapre il discorso?

Insomma, un mezzo casino. Molte pedine ben messe e un gioco stentato, con una soluzione banale. Tanto colore e tanta invenzione per dire confusamente cose non trascinanti, visto che ormai perfino gli editoriali di guru e gazzettieri ce le ammanniscono. Per raccontare il non-senso della vita, e in particolare oggi delle nostre, ci vorrebbe un po’ più di delirio o un po’ più di buon-senso? Certamente, servirebbe un po’ più di azzardo nel fare chiarezza sui propri dubbi e sulle proprie convinzioni, e nell’inventare tragitti narrativi non così risaputi, non solo per i frequentatori della fantascienza di ieri, ma anche per i lettori degli editoriali del Corriere o della Repubblica di oggi.

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