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Il clan dell’argentino Trapero è un misto di moralismo e americanate

Il clan. (Filmcoopi/Outnow)

Il clan, ovvero “il caso Puccio”. Sul finire del dominio dei generali argentini, al tempo dei desaparecidos, un funzionario statale del ramo più ambiguo, legato alla repressione, forte delle sue protezioni inventa con pochi amici – e mettendo al lavoro tutta la famiglia – un suo particolare modo di fare soldi imitando in proprio l’azione dei militari, che in quel momento sono lo Stato.

È semplice: rapire accortamente giovani ricchi, magari con l’aiuto del figlio maggiore che li frequenta in quanto divo del rugby, e chiedere ai parenti un lauto riscatto. Per non correre rischi tanto vale, avuti i soldi, far fuori il sequestrato. Che nel frattempo è stato tenuto prigioniero in cantina o in soffitta, nella villetta unifamiliare del signor Puccio. Moglie e figlie accettano pacificamente, ma il figlio più giovane taglia la corda alla prima occasione, va all’estero, non ne vuole sapere.

Il maggiore è il più coinvolto, ci sta e ne ha il suo guadagno, ma ogni tanto ne soffre, e alla fine, quando il gioco è scoperto, si ribella in extremis, massacra di botte il padre e tenta il suicidio.


Il gioco del “clan” viene scoperto quando il regime militare va in crisi, quando le alte protezioni devono riciclarsi, quando i parenti dell’ultima rapita, un’imprenditrice, non pagano il riscatto e interviene, finalmente, la polizia.

È una storia vera, di umane abiezioni, nella versione burocratico-piccoloborghese-famigliare che hanno ben conosciuto le dittature del novecento e i paesi a lungo occupati da eserciti nemici, ma anche, non c’è da illudersi, i paesi normalmente democratici, ieri e oggi.

Raccontare queste storie, metter le mani in questa bassezza non troppo anormale, è da sempre un’impresa delicata: essere indignati e spietati è facile, lavarsene le mani più complicato. Pablo Trapero, un regista che mi sta particolarmente antipatico, ha scelto la strada più facile, dunque la meno seria. Si sente dalla parte giusta, ma sceglie i modi di un racconto chiassoso e “americano”, cioè televisivo, statunitense, effettistico, pensando di criticarlo. Accentua ed esaspera gli aspetti da telefilm su famiglia e da telefilm poliziesco, agita la macchina da presa a torto e a traverso, aggiunge bordate di musicastra tutta esclusivamente e rabbiosamente yanki, e sembra convinto di operare così una lettura critica di quei modelli adeguata alla cultura della famiglia e dell’ambiente di cui tratta.

C’è da dubitarne, l’Argentina non è gli Stati Uniti, e declina autonomamente le sue dittature e le sue democrazie. Da questo sovraccarico e da questo stordimento non viene altro che un giudizio moralistico e ambiguo, perché mimare la volgarità è pericoloso, si può finire col diventare a nostra volta volgari.

L’indignazione e la denuncia diventano concione, diventano spettacolo, come sappiamo bene da tanti esempi italiani, soprattutto giornalistici. Un po’ di distanza e di profondità, due atteggiamenti che possono stare benissimo insieme, sarebbero più utili a far capire, a distinguersi, e a intervenire. Non sempre tutto il marcio è esterno a noi, come è sempre gratificante pensare.

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