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La ragazza senza nome prova a scuotere le coscienze addormentate

Una scena del film. (Dr)

L’ultimo film dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, i grandi registi belgi che, raccontando personaggi e situazioni del loro paese, parlano in realtà dell’Europa tutta così sorda e ottusa, si chiama La ragazza senza nome. Narra i sensi di colpa di una giovane medico, Jenny (Adèle Haenel, che condivide con i registi il peso del film), per non aver aperto fuori orario la porta del suo studio a una ragazza africana che pochi minuti dopo morirà ammazzata da qualcuno o per incidente. I riferimenti all’indifferenza che esiste in Europa sono evidenti, ma non insistiti. La metafora rimane nelle pieghe del racconto così lo spettatore può arrivarci da solo e a partire da sé a collegare il particolare e il generale. Anche perché l’Europa di sensi di colpa sembra averne ben pochi, e ciascuno, individuo e paese, gode o soffre del suo “particulare”, e sceglie soltanto tra l’indifferenza, il rinvio, l’ostilità.

Con ostinata fedeltà a una loro idea di cinema e di morale, i Dardenne raccontano personaggi che ci sembrano veri, li seguono e li scrutano e ci spingono a farlo anche a noi, in una rete di piccoli fatti che diventano significativi, depurando la narrazione dalle sue tentazioni naturaliste (l’ambizione a mostrare “la vita com’è”) e neorealiste (il “pedinamento del personaggio”). Scelgono da sempre, per aderire alla loro visione delle cose, una narrazione di tipo documentario, la macchina da presa che sta dietro all’attore e che lo colloca in situazione, e mostrano il contesto a partire da singoli incontri, da singole azioni, in ambienti comuni, banali, chiaramente delimitati. Con uno scopo bensì intimo, etico: farci riflettere sulle nostre, di colpe e di silenzi. Dall’individuo-attore all’individuo-spettatore, avendo per obiettivo i nostri sentimenti, la nostra identificazione con la questione e non solo con il personaggio.


Il film dei Dardenne era a Cannes, dove ha vinto quello di Loach, e si tratta di due film di pari interesse ma che seguono strade molto diverse. Nessuno dei due, va detto, è un capolavoro, ma entrambe sono opere degnissime. Loach sceglie un linguaggio mainstream, “da film” ben fatto, “normale” (che goda di una sceneggiatura studiatissima e di una regia perfettamente professionale), sceglie la via della denuncia tramite una comunicazione oggettiva. Sceglie la via del melodramma sociale che narra storie individuali come storie di ceti e di classi. Il suo scopo è di denunciare e di convincere, sperando in tal modo di contribuire a cambiare le cose, stimolare reazioni, propugnare giustizia. Il coinvolgimento deve crescere con l’indignazione. Conta il sociale, “la cosa pubblica”, il reale economico-sociale.

Se il limite del film di Loach è l’oratoria, quello della pellicola dei Dardenne è la sua struttura da poliziesco, non nell’impostazione ma nella forma, cioè un’indagine che lo fa somigliare a molte delle inchieste che bande di scrittori furbetti di tutto il mondo ci propongono quotidianamente sui tavoli delle librerie, affascinati dalla morte e dal crimine, e per niente dall’amor di giustizia. La ragazza senza nome non è il loro film più puro per questo, anche se è uno dei loro film, per il suo tema, tra i più ambiziosi. È troppo un “giallo”, ne ha troppo la struttura e i risvolti, i condizionamenti. I Dardenne hanno anche loro timore di non trovare spettatori e anche loro, come Loach, temono di non contare se non hanno un pubblico abbastanza vasto a cui parlare.

Anche se ci sono troppi risvolti e astuzie nella loro narrazione, nel loro giallo morale, il loro progetto resta tuttavia altissimo e dei più seri che sia possibile trovare nel cinema del nostro tempo. La loro scelta è di fondo, ed è chiara, vogliono raccontare esami di coscienza individuali perché credono che è solo a partire da lì che si possano affrontare quelli collettivi, che solo da lì è possibile ripartire, nella speranza che lo spettatore metta in discussione le proprie convinzioni, non sentendosi dalla parte del giusto e degli innocenti, delle vittime, ma vedendosi piuttosto come complice e come colpevole anche delle ingiustizie sociali che magari lo indignano.

Raccontando esami di coscienza individuali si possono affrontare quelli collettivi

Il grande tema dei film dei Dardenne e di questo in particolare è il tema della colpa. Del sentirsi colpevoli, come Jenny, per inadempienza o trascuratezza più ancora che per indifferenza. Si contribuisce anche in questo modo, indiretto, alla morte di altri. I due autori esigono che noi spettatori si prenda atto di ciò, ci si renda conto delle nostre responsabilità. Individuali. Dalla mancata assunzione di responsabilità, dall’indifferenza e trascuratezza nasce la corresponsabilità nei confronti del male che altri subiscono. Ed è da questo che può nascere, ma solo nei più sensibili (sempre più rari) il sentimento della colpa, la consapevolezza che anche noi c’entriamo con quelle morti. Con spiccata visione religiosa, che potremmo anzi dire cattolica, al tema della colpa – del superamento della colpa – si unisce quello della confessione, ma se il rischio del cattolicesimo è stato ed è quello di scaricare le coscienze (di liberare dalle responsabilità) con l’abuso rituale della confessione, nei laici Dardenne la confessione è un’assunzione pubblica di responsabilità. È qui la confessione alla polizia, alla giustizia, alla società. E alla confessione deve seguire l’espiazione, il cambiamento, altrimenti non vale.

Quel che i Dardenne chiedono è il riconoscimento pubblico delle nostre colpe, la nostra assunzione di responsabilità, la nostra trasformazione. Si rivolgono all’individuo per rivolgersi all’Europa, a un’Europa fatta di individui. Lo fanno con il mezzo del cinema, convinti che questa, come le altre arti, non serva soltanto a distrarci e non a metterci in crisi, invece che ad affrontare dilemmi eterni ma anche pressantemente odierni.

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