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Quello che manca ai Miserabili di Ladj Ly per essere un grande film

Una scena del film. (Lucky red)

Montfermeil, alle porte di Parigi, è uno dei posti in cui Victor Hugo ambientò I miserabili, collocandovi per la precisione l’osteria degli odiosi Thénardier. Vi è nato il francese d’origine maliana Ladj Ly, animoso e abile regista cinematografico che vi ha ambientato un film rubando il titolo a Hugo. Il suo fine è parlare dei miserabili di oggi, in una società comunque assai diversa, meno terribile di quella narrata da Hugo. Anche nei confronti degli ultimi, che poi tanto ultimi non sono formando una parte molto consistente di una società che, per merito della grande rivoluzione, è più multietnica e più dinamica della nostra. Nel film si narra l’addestramento di un poliziotto bianco alla sua prima esperienza diretta in una squadra di controllo urbano, a fianco di un bianco “esperto”, sicuro di sé e notevolmente cinico, e di un nero meno aggressivo ma che sarà l’origine degli scontri che animeranno il film.

Dai loro giri impariamo a conoscere quali sono le forze in campo a Montfermeil: un sindaco nero, un imam con i suoi seguaci e il suo separatismo, i piccoli commercianti e i loro rappresentanti, esponenti della mala che comprendono anche, come di dovere, qualche informatore e doppiogiochista. I conflitti quotidiani sembrano controllati e controllabili, in una comunità dove i bambini sono piuttosto liberi, lasciati a se stessi – più liberi che in altri ambienti, ma anche più soli. Ladj Ly non ci dice nulla – e questo è infine uno dei grandi limiti del film – sulla scuola, che invece in Francia svolge ancora un ruolo molto importante, all’interno di una comunità come Montfermeil e in generale. E parla poco anche dei genitori, e delle donne, che restano sullo sfondo.

Un buon sociologo – e ancora qualcuno ce n’è, almeno in Francia – avrebbe arricchito di molto la sua analisi, anche per giustificare la citazione che il regista ha voluto degnamente mettere alla fine del suo film, presa proprio da Hugo per ricordare che non ci sono cattivi e non-cattivi, ma solo la cattiva volontà delle classi dirigenti. Dei politici, dei magistrati, dei ricchi, di quelli che in altri tempi avremmo genericamente chiamato “i padroni”. Che nel film non vediamo neanche in televisione, ma di cui i tre protagonisti sono tuttavia il “braccio armato”.


Quella che il regista dei Miserabili ci racconta egregiamente è la dinamica, lo sviluppo di una guerra tra “sudditi”, scatenata da un’occasione quasi paradossale: un ragazzino ruba da un circo un cucciolo di leone – dal circo Zeffirelli, si chiama proprio così, e potrebbe anche essere una definizione del nostro paese! –, e ne conseguono scontri e disastri a catena. Compresi un’inchiesta affannosa e i tentativi di pacificazione fra i tre poliziotti. Tra il nuovo e l’esperto c’è un conflitto non proprio sottaciuto. Il nuovo vorrebbe davvero ritrovare il leoncino per poter mediare, capire, evitare o smussare i conflitti tra le varie parti e tra loro e “la legge”.

L’azione procede tesissima, raccontando egregiamente un pezzo di società e le sue contraddizioni, il suo funzionamento. Il film, come succede sempre più spesso nelle poche opere interessanti tra le tante che intendono raccontarci la società contemporanea, ha più finali, e quello più convincente è sui tre poliziotti visti a fine giornata, la sera, quando i problemi sembrano provvisoriamente risolti anche se con risvolti di loro colpe, che hanno infiammato il conflitto invece di spegnerlo. Eccoli ora nel loro privato, in famiglia. Sarebbe stato un finale malinconico e giusto, anche per spiegare chi sono quei tre, i loro stessi comportamenti. E tramite loro le contraddizioni di un sistema.

Si narrano cose nuove in un modo consolidato e che possiamo anche dire vecchio

La lenta evoluzione dell’esplosione dei conflitti interni alla comunità, e di quello tra le sue parti e la legge, è raccontata assai bene, secondo schemi abbastanza classici, desunti infine da certa letteratura poliziesca (alla Ed McBain, ma con più durezza) e da certo cinema social-poliziesco, più americano che europeo, e di tradizione un po’ neorealista, di cui fanno parte i film sulle “città nude” che in anni recenti hanno ancora avuto un regista della forza di Martin Scorsese, da cui Ly ha avuto qualcosa da imparare più che da Spike Lee, come qualche critico ha invece detto.

Nell’evoluzione della vicenda, con la crescita delle tensioni che segue le fasi dell’inchiesta e porta ai suoi esiti per un po’ incontrollabili, è di grande rilievo e interesse la descrizione delle parti in causa, fino all’esplosione del dramma e del conflitto, che non è tanto quello tra le parti ma quello tra le regole di quella società e della società organizzata in stato, come ricorda la finale citazione di Hugo.

Vecchi modelli
La preoccupazione di far spettacolo e appassionare un pubblico più vasto mostrandogli qualcosa di cui sa ma che non conosce da vicino, è evidente nella costruzione del film, ma si mantiene nel limite di un buon uso della suspense, nel tener viva la curiosità dello spettatore che da quelle storie è lontano. Ma non per questo il film diventa un grande film. Gli nuoce il dominio della sceneggiatura, nonostante la dinamicità della regia e il suo tono da documentario, o psuedo-documentario.

Diciamo pure che Ladj Ly ha in mente modelli più classicamente hollywoodiani (anche se guarda al meglio di quella tradizione), che non quelli della nouvelle vague – negli anni compresi tra la metà dei cinquanta del novecento e i successivi – che ambivano a un linguaggio nuovo come prodotto di uno sguardo nuovo. Qui si narrano cose nuove in un modo consolidato e che possiamo anche dire vecchio. La sceneggiatura vi ha un ruolo fondamentale, tutto è scritto, preventivato, calcolato; il regista, anche quando è lui ad averla scritta, ne è condizionato, ne è servo e finisce con il dire cose nuove infilandole in una botte vecchia, per quanto abilmente e con convinzione giunga a farlo.

Molti critici veloci hanno proposto un paragone con il brutto film L’odio di Mathieu Kassovitz, ma il paragone non regge: Kassovitz voleva stupire e scandalizzare, non badava a effetti e la sua analisi era tutta effettistica. Il suo era, si può dirlo, un film di destra, questo di Ly no, è un film ottimamente intenzionato, anche se si ferma troppo presto, non cercando una forma nuova come nuove sono le cose che vuole mostrare, investigare. L’investigazione non è abbastanza profonda e di conseguenza non lo è la forma con cui la si presenta? Piuttosto, mi sembra sia possibile dire che si accetta il condizionamento che nasce dalla ricerca del successo, che è qualcosa di lodevole per la volontà di far conoscere ai più ciò che ignorano o di cui non sanno abbastanza, ma che lo è meno per la non-radicalità dell’analisi e dei modi di fare inchiesta.

(Sui grandi, nuovi, pianificati, anonimi e massicci agglomerati periferici dell’Île-de-France, detti “città satelliti” o “nuove unità urbane”, negli anni sessanta richiamarono l’attenzione, insieme a rari giornalisti e sociologi, una scrittrice come Christiane Rochefort con Les petits enfants du siècle, pubblicato nel 1961, e in Italia intitolato dapprima, chissà perché, Malthus, e nel 2008 I bambini del secolo; e un regista come Jean-Luc Godard, con un film freddo e didascalico e radicale, Due o tre cose che so di lei, del 1966, dove “lei” era la regione parigina e non solo la protagonista piccolo-borghese del film che, per aiutare a mandare avanti la baracca, si prostituisce occasionalmente).

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