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Saga calabrese

Saverio Strati
Il selvaggio di Santa Venere
Rubbettino, 290 pagine, 16 euro

Un editore calabrese ripropone l’opera di uno dei più densi ed esemplari scrittori della seconda metà del novecento, e a partire da Tibi e Tascia, una delle più belle storie d’infanzia e adolescenza nel sottosviluppo, non solo italiane. In attesa di Mani vuote e Noi lazzaroni, ora è il turno di un’ambiziosa costruzione narrativa, una sorta di saga del 1977 che Walter Pedullà – come Strati contadino e figlio di contadini, allievo e pupillo di Debenedetti – paragona a Corporale di Volponi e alla Storia di Morante. Non è poco.

Vi si narrano tre generazioni, padre-figlio-nipote, confrontate alla durezza di un’esistenza grama e sudata, in un ordine locale di stampo mafioso e padronale. E una fuga verso il nord, nella Firenze che Strati sognava come centro di cultura e civiltà, e dove scelse poi di vivere e di morire (nel 2014). Si rileggono con forte emozione queste vicende, da cui imparammo a conoscere, dopo Corrado Alvaro, la cultura e la società di una regione complessa, nella sua vicinanza e differenza dalle limitrofe, dentro un sud precario e duro di cui il romanzo offre una sintesi storica e antropologica. S’impara e si soffre con i tre eroi-antieroi di un passato che non passa mai del tutto, tra le figure con cui devono o vogliono confrontarsi. Con un passato che ha lasciato tracce buone e che ci riguarda ancora da vicino.

Questo articolo è uscito sul numero 1388 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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