L’impiegato esplode. Due film sulla shoah
“L’impiegato esplode”. È una frase che il filosofo tedesco Ernst Bloch scrisse nel 1932, quando Adolf Hitler era sul punto di prendere il potere. Avete mai visto un impiegato esplodere? Forse in qualche vecchio sketch dei Monty Python, chissà. E a quali condizioni di temperatura e di pressione lo scoppio si verifica? Quale miscela di sostanze serve a innescare la reazione? Soprattutto, ci sono precauzioni che consentono di evitare l’esplosione di un impiegato, o quanto meno di contenere la deflagrazione? Queste e altre domande altrettanto stralunate mi sono posto, nei giorni scorsi, dopo aver visto due film che di comico e di pythonesque hanno ben poco, Hannah Arendt (2012) e L’uomo perbene (2014). Per quanto l’esercizio possa apparire ozioso ed eccentrico, li considererò a partire da una sola parola tedesca di sette lettere che compare in entrambi: Anstand.
Cominciamo da una scena del primo film, Hannah Arendt, il biopic di Margarethe von Trotta trasmesso il 29 gennaio da RaiTre (rimando al bell’intervento di Vanessa Roghi). È il 1961, Hannah Arendt è a Gerusalemme come inviata del New Yorker per seguire il processo contro Adolf Eichmann, grande pianificatore della soluzione finale. Dopo una delle udienze discute a tavola con un vecchio amico e mentore, il sionista tedesco Kurt Blumenfeld. Eichmann ha la mentalità di un burocrate, sostiene Arendt, non è animato da furore antisemita: il tenente colonnello era convinto che il suo compito fosse obbedire agli ordini superiori, quali che fossero, dunque oggi non avverte in sé nessuna colpa per lo sterminio degli ebrei. Ti sbagli, le risponde Blumenfeld, Eichmann sta mentendo, sta recitando una parte. “Ma Kurt”, ribatte lei, “non puoi negare l’enorme divario tra l’inimmaginabile orrore delle azioni e la mediocrità dell’uomo!”.
È probabile che Arendt avesse torto, rispetto al caso specifico di Eichmann, ma la sua intuizione si adatta bene a innumerevoli altri esecutori del genocidio. Questo “enorme divario” che stupì la filosofa fin dalle prime udienze è uno dei grandi nodi che attraversano da decenni la riflessione sulla shoah. Come rendere conto della vistosa sproporzione tra un crimine immane, esorbitante, che non è neppure su scala umana (“non più delle grandezze astronomiche e degli anni luce”, diceva Vladimir Jankélévitch) e la piccolezza, la meschinità dei suoi esecutori? Hannah Arendt credette di aver trovato il bandolo del problema nella sua formula più celebre, la “banalità del male”: quella che per gli ebrei era la fine del mondo, per Eichmann era “un impiego con la sua routine, i suoi alti e i suoi bassi”. Da una parte l’impiegato, dall’altra l’Apocalisse. Tra i due poli, la comunicazione è ridotta al minimo: lo Schreibtischtäter, il criminale da scrivania, svolge diligentemente un compito delimitato all’interno di un’operazione più vasta del cui significato e del cui scopo generale si disinteressa e in ogni caso non si sente responsabile. Per non esplodere, l’impiegato opera su di sé quello che lo stesso Eichmann nel processo chiamò uno “sdoppiamento cosciente”: un distratto transitare, quasi fossero sale attigue di un ufficio, tra i doveri del burocrate e la coscienza dell’uomo, tra i quali non si genera nessun conflitto propriamente tragico.
Più avanti nel film, Hannah Arendt è in Svizzera e riceve una minacciosa visita di Siegfried Moses, incontrato anch’egli molti anni prima nel circolo sionista di Blumenfeld a Berlino, che ora è un alto funzionario del governo israeliano (qui la Von Trotta per amore di agiografia si è presa qualche libertà di troppo, perché nella realtà non si trattò di un blitz intimidatorio ma di un incontro annunciato e concordato). Moses è indignato per le tesi della Arendt sul ruolo degli Judenräte, i consigli ebraici, nel facilitare la messa in opera della soluzione finale, e la esorta a interrompere la pubblicazione del libro su Eichmann, se le resta un minimo di decenza. “Voi proibite i libri”, risponde lei, “e venite a parlarmi di decenza (Anstand)?”.
Ecco, parliamo di decenza, di decoro, di Anstand; parola che nel film della Von Trotta è pronunciata fuggevolmente, in un’accezione generica di ritegno morale o di senso dell’opportunità, e che nel secondo film è esplorata in tutta la sua insospettabile profondità. L’uomo perbene, il documentario sul capo delle Ss Heinrich Himmler di Vanessa Lapa, regista israeliana nata in Belgio, è stato proiettato il 27 e il 28 gennaio nelle sale italiane. Il titolo originale è appunto Der Anständige. Ma che cos’è l’Anstand? E soprattutto, che cos’era per i nazisti? Nel 1963, in un saggio sul cattolicesimo tedesco, Carl Amery scrisse che Anstand era l’intraducibile parola chiave del sistema di virtù piccolo borghese in Germania, e che “includeva cose quali l’onestà, la coscienziosità, la pulizia, la puntualità, l’affidabilità nel lavoro assegnato; la diffidenza verso ogni forma di eccesso e ogni vistosità, ogni ambivalenza, ogni ambiguità; e l’obbedienza all’autorità”. Eichmann, almeno per come emerge dal ritratto di Hannah Arendt, era dunque l’Anstand fatto persona.
Ma si tratta di una costellazione di virtù secondarie, diceva ancora Amery, prive cioè di un contenuto morale autonomo. In questo senso il “perbene” del titolo è una traduzione un po’ fuorviante, perché ci si può dedicare con perfetto Anstand anche al male estremo: “Posso presentarmi puntualmente al lavoro al presbiterio o nello scantinato della Gestapo; posso dimostrarmi pignolo nella redazione di un documento sulla ‘liquidazione finale degli ebrei’ o in un’attività sociale: posso lavarmi le mani dopo un’onesta giornata di lavoro nei campi o dopo le mie attività nel crematorio di un campo di concentramento”.
Nel film di Vanessa Lapa, tutto composto a partire da documenti d’archivio – filmati, fotografie, diari e lettere di Himmler e dei suoi familiari –, la parola Anstand torna in moltissime accezioni (ho preso appunti “alla cieca” in una sala buia, mi scuso per eventuali imprecisioni). Il 18 maggio del 1941 Himmler scrive alla figlia Gudrun, allora neppure dodicenne, per raccomandarle di essere anständig, ossia, potremmo dire, di “fare la brava”. E Gudrun annota nel diario che la maestra a scuola è stata anständig, perché anche se l’ha vista copiare il compito ha fatto finta di nulla (è l’ossequio verso l’autorità). In un altro punto del film è riportata una frase di Himmler secondo cui i tedeschi sono gli unici a essere anständig nei confronti degli animali, e anche degli animali umani (allude agli ebrei); l’accezione in questo caso è quella del rifiuto degli eccessi, perché il buon tedesco anche quando uccide non si compiace e non infligge crudeltà inutili. Himmler ricorda poi che uno dei requisiti essenziali per far parte delle Ss è quello di essere anständig.
È un tripudio di virtù borghesi e familiari che, contemplate sullo sfondo di uno sterminio industriale, producono un effetto decisamente perturbante. In questo, il documentario di Vanessa Lapa può ricordare un importante libro della fine degli anni ottanta, Schöne Zeiten (in Italia lo ha pubblicato Giuntina con il titolo Bei tempi). Era una raccolta di diari, lettere e fotografie degli esecutori della soluzione finale. Vite molto ordinarie e decorose, uomini pieni di buon umore cameratesco e inclini alle più svenevoli smancerie sentimentali verso le mogli e i figli; il titolo, nostalgico e sospiroso, viene da un’annotazione che Franz Stangl, comandante del campo di sterminio di Treblinka, scrisse sulla pagina di un album privato di fotografie (dopo la guerra cancellò la parola Schöne, e rimase solo Zeiten, tempi).
Ma L’uomo perbene non presenta solo un continuo cortocircuito di ordinarietà e atrocità, è anche la cronaca di un rapido inabissamento, di un mondo morale che cola a picco. Perché man mano che il film procede, ripercorrendo tutta la parabola del nazismo, quella paroletta apparentemente inoffensiva, Anstand, è costretta a coabitare con imprese sempre più mostruose. La si sente pronunciare un’ultima volta in coda al film dalla voce di Heinrich Himmler, in un contesto che getta una luce se possibile ancora più sinistra su tutto ciò che avevamo visto fino a quel momento. È la registrazione del discorso segreto ai Gruppenführer delle Ss tenuto a Posen il 4 ottobre del 1943, e precisamente di questo passo sullo sterminio degli ebrei:
La maggior parte di voi sa che cosa vuol dire vedere cento cadaveri distesi l’uno accanto all’altro, o cinquecento, o mille. Essere andati fino in fondo e – a parte casi di debolezza umana – avere mantenuto la propria integrità (anständig geblieben zu sein), è questo che ci ha resi duri.
Il merito delle Ss è quindi aver conservato l’Anstand davanti a montagne di cadaveri (Anständig geblieben, per inciso, è un libro dello storico Raphael Gross sulla morale nazista). Ed è chiaro che l’accezione non è più quella ordinaria di decoro, di decenza, di coscienziosità piccolo borghese; Anstand allude qui a un controllo di sé, a una padronanza che ha qualcosa di ascetico e di eroico. E indica un’altra via, tutt’altro che “banale”, per darsi conto della sproporzione tra l’enormità del crimine e la piccolezza dei criminali. Non c’è solo il burocrate dietro la scrivania che si disinteressa dell’impresa a cui dedica il suo lavoro scrupoloso; c’è anche il soldato che prende la virtù miserella del “decoro” piccolo borghese e la porta a cospetto dell’orrore più estremo, quasi a saggiarne la tenuta.
L’Anstand è esteso, magnificato, gonfiato fino a somigliare a quella che nell’estetica occidentale è la posizione dello spettatore davanti al sublime, che ancorandosi alla superiorità della propria natura razionale sa di potersi mantenere “integro”, in salvo, pur in mezzo allo scatenamento delle forze della natura. Solo che qui lo spettacolo non è l’eruzione di un vulcano, è il fumo dei crematori; non sono le vette delle Alpi, sono le montagne di capelli o di scarpe; non è un paesaggio di Caspar David Friedrich, è un paesaggio di cadaveri. È qui la chiave di tutto il kitsch nazista, che non è scimmiottatura del bello ma pervertimento del sublime. L’impiegato si trasfigura in una parodia dell’eroe romantico.
Torniamo così alla frase di Ernst Bloch, che vale la pena citare per intero: “L’impiegato esplode, selvaggio e bellicoso, vuole ancora obbedire, ma solo come soldato, combattente e credente”; il suo desiderio “si amplifica fino a diventare aspirazione orgiastica alla subordinazione, alla condizione magica del funzionario agli ordini di un duce”. L’esplosione dell’impiegato: esiste formula più felice per tenere insieme i due termini della strana equazione che sconcertava Hannah Arendt, l’inimmaginabile orrore delle azioni e la mediocrità degli esecutori?