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Le nuove tribù di Israele devono imparare a convivere

Donne palestinesi nella casa a Duma, in Cisgiordania, dove il 31 luglio 2015 è stato appiccato un incendio da due coloni israeliani. La foto è stata scattata il 4 agosto 2015. (Menahem Kahana, Afp)

Reuven Rivlin, il presidente d’Israele, è un uomo schietto ma sa quando è il momento di trattenersi. Ha condannato come “terroristica” l’uccisione di un bambino palestinese di diciotto mesi durante un incendio doloso in Cisgiordania di cui sono sospettati alcuni coloni ebrei. Ma non ha detto che i sospetti provenivano dall’ala estremista della “tribù nazionalista religiosa”.

Inoltre, parlando dell’accoltellamento di sei manifestanti durante il gay pridedi Gerusalemme (una di loro, la sedicenne Shira Banki, è poi morta per le ferite riportate), non ha detto che l’assassino, Yishai Schlissel, appartiene alla frangia estremista della “tribù degli haredim”, gli ebrei ultraortodossi che non riconoscono neppure la legittimità dello stato di Israele.

Sarebbe sbagliato usare un linguaggio che descriva tutti i membri delle tribù in questione come complici di questi omicidi, poiché non lo sono. Anche ammettendo (come è probabile) che alcuni di loro simpatizzino con le azioni degli assassini, sarebbe comunque un errore politico spingerli ancora più ai margini della società israeliana.

Ma forse è il caso di riformulare quest’ultima frase poiché, stando a quanto pensa Rivlin, non esiste più una sola società israeliana. Esisteva un tempo, quando gli ebrei laici, perlopiù originari dell’Europa dell’est, costituivano la maggioranza della popolazione e tutti gli altri appartenevano a delle “minoranze”. Tuttavia gli alti tassi di natalità di queste minoranze hanno fatto sì che gli ebrei laici diventassero semplicemente un’altra minoranza. E ora Rivlin sostiene che in realtà dovrebbero essere tutti considerati delle “tribù”.

I cambiamenti demografici hanno creato un nuovo ordine, nel quale la società è composta da quattro ‘tribù’ principali

Ha sostenuto tutto ciò due mesi fa, nel corso di un discorso incredibilmente franco tenuto durante la conferenza di Herzliya, un evento annuale dove i principali dirigenti del paese discutono questioni di politica interna. “Negli anni novanta del novecento”, ha detto, “la società israeliana era composta da… un’ampia maggioranza sionista laica accanto alla quale esistevano tre gruppi minoritari: la minoranza nazionalista religiosa, la minoranza araba e la minoranza degli haredim”.

“Sebbene questo schema rimanga impresso nella mente di molti cittadini israeliani, nella stampa e nel sistema politico, nel frattempo la realtà è totalmente cambiata. Oggi nelle classi di prima elementare (delle scuole israeliane) i bambini provengono da famiglie al 38 per cento circa di ebrei laici, al 15 per cento circa di nazionalisti religiosi, per un altro quarto circa di arabi e un quarto ancora di haredim”.

Aspettando il messia

I cambiamenti demografici, ha affermato Rivlin, hanno creato un “nuovo ordine israeliano… nel quale la società è composta da quattro gruppi di popolazione o, se preferite, quattro ‘tribù’ principali, tutte sostanzialmente diverse fra loro e dalle dimensioni sempre più simili. Che ci piaccia o no, la composizione degli ‘azionisti’ della società israeliana, e dello stato d’Israele, sta cambiando davanti ai nostri occhi”.

La principale conseguenza di questo cambiamento è che appena la metà dei bambini che oggi sono nelle scuole elementari israeliane cresceranno sionisti. Non accadrà agli arabi, naturalmente, ma neanche agli haredim, gli ebrei ultraortodossi che credono che il progetto sionista di ricreare uno stato ebraico in Israele sia blasfemo. Solo dio può farlo, inviando il messia, e il tentativo dei sionisti di accelerare la cosa con mezzi umani è una ribellione contro dio.

Queste minoranze sono estranee ai presupposti sionisti laici che sono alla base della struttura politica d’Israele

Nessuna di queste “tribù”, peraltro, presta servizio nell’esercito, un tempo la grande istituzione unificatrice israeliana. Gli arabi non sono tenuti a fare il servizio militare e pochissimi di loro si offrono volontari. Gli haredim, in pratica, sono stati esonerati dalla leva per tutta la storia d’Israele come stato indipendente, anche se lo scorso anno il parlamento ha approvato una legge volta a porre fine a tali deroghe.

Le tribù sioniste inoltre sono divise tra sionisti e “nazionalisti religiosi”. Questi ultimi riescono a conciliare le loro convinzioni religiose col progetto sionista sostenendo che è stato dio a spingere i primi sionisti dell’europa orientale a costruire uno stato ebraico in Palestina, anche se non se ne sono resi conto neanche loro. La maggioranza dei coloni ebrei della Cisgiordania, e la maggior parte dei loro sostenitori nel territorio israeliano propriamente detto, appartengono a questa minoranza.

Tutte queste ex minoranze sono, in una certa misura, estranee ai presupposti sionisti laici e liberaldemocratici che sono alla base dell’attuale struttura politica d’Israele. Alcuni membri di ciascuna tribù sono già talmente estranei da ricorrere alla violenza, come i coloni che attaccano i bambini palestinesi, gli arabi israeliani che uccidono degli ebrei o il fanatico ultraortodosso che ha attaccato la parata del gay pride.

Il re è nudo

Il presidente Rivlin, “Ruvi”, non lo ha detto in maniera esplicita (sarebbe stato troppo traumatico), ma stava facendo notare che il re è nudo. L’attuale predominio dei sionisti laici non può continuare: anche le altre tribù devono sentirsi al sicuro e benvenute in una diversa Israele. Più precisamente, in uno “stato unico” israeliano che includa tutti i territori tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

Rivlin, per quanto sia un ebreo ortodosso, non appartiene in realtà a nessuna di queste tribù, poiché la sua famiglia ha vissuto a Gerusalemme per più di due secoli. Egli ritiene che la soluzione “dei due stati” (uno per gli ebrei e uno per i palestinesi) non sia più praticabile, ammesso che lo sia mai stata. Per questo è spinto verso la “soluzione dello stato unico” che impone la riconciliazione e la cooperazione tra tutte le tribù.

È una soluzione talmente radicale da essere quasi sensata. Ma è difficile credere che possa mai avere luogo.

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