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Le primavere arabe hanno comunque cambiato la storia

I festeggiamenti davanti alla sede del partito islamico Ennahda a Tunisi dopo la vittoria alle elezioni legislative, il 25 ottobre 2011. (Zohra Bensemra, Reuters/Contrasto)

Questo mese cade il quinto anniversario dell’inizio delle primavere arabe, segnato dalla fuga di Zine el Abidine Ben Ali. L’allora presidente tunisino non osò ordinare all’esercito di aprire il fuoco sui manifestanti (perché non era sicuro che i militari avrebbero obbedito) e stava finendo i soldi, così decise di rifugiarsi in Arabia Saudita.

Dato che la tv via satellite e i social network avevano reso vana la censura, il resto del mondo arabo seguì attentamente le quattro settimane di proteste in Tunisia. Subito dopo la fuga di Ben Ali, in diversi paesi si scatenarono immediatamente manifestazioni non violente in favore della democrazia.

Sembrava che stesse per arrivare un enorme cambiamento, perché il mondo si era abituato all’idea che le rivoluzioni non violente si diffondono in modo incontrollabile e alla fine vincono. La pionieristica rivoluzione del 1986 nelle Filippine, per esempio, era stata seguita nei tre anni successivi dalle transizioni non violente in Corea del Sud, Taiwan, Thailandia e Bangladesh e dai movimenti non violenti in Birmania e in Cina.

In Europa orientale la caduta del muro di Berlino nel 1989 aveva spianato la strada alla democrazia in tutti i paesi del blocco sovietico entro la fine dell’anno. La stessa Unione Sovietica si era sciolta nel 1991. La non violenza era diventata una specie di pozione magica, e sembrava ovvio che avrebbe funzionato anche nel mondo arabo.

Ma non è stato così. Le proteste si sono diffuse con la stessa velocità, ma il loro unico successo duraturo è stato in Tunisia. Egitto e Bahrein sono tornati sotto il controllo di un governo autoritario, Yemen e Siria sono tormentate dalle guerre civili e dagli interventi militari stranieri. E anche la Libia è dilaniata da una guerra civile (anche se lì le proteste non sono mai state non violente).

L’islam non è incompatibile con la democrazia. In Indonesia, il paese più popoloso del mondo islamico, la democrazia esiste dal 1998

Non si possono biasimare quelli che hanno cercato di liberarsi dei vecchi regimi, che erano piuttosto insopportabili, ma a parte in Tunisia il risultato finale è stato ovunque tragico e sanguinoso. C’è un motivo che spiega tutto questo o è stata solo una grande sfortuna? Molti sono riluttanti a porsi questa domanda, perché temono che la risposta abbia qualcosa a che vedere con la natura intrinseca della società araba o della cultura islamica. Ma non hanno motivo di preoccuparsi.

L’islam non è incompatibile con la democrazia. In Indonesia, il paese più popoloso del mondo islamico, la democrazia esiste dal 1998 e continua a funzionare. La Turchia è stata un paese democratico per decenni nonostante l’attuale governo stia seriamente danneggiando le istituzioni democratiche. Sia il Pakistan sia il Bangladesh sono democrazie, per quanto instabili.

Questi quattro paesi ospitano da soli quasi la metà dei musulmani del pianeta. Nel mondo arabo la democrazia è una merce rara, ma esiste in Tunisia. Alcuni paesi arabi, come la Giordania e il Marocco, possiedono significativi elementi democratici nei loro sistemi politici, nonostante i monarchi conservino un grande potere.

Quindi cos’è che non ha funzionato nelle primavere arabe? Nel caso del Bahrein il problema è stato che la maggioranza della popolazione è sciita, ma la famiglia regnante è sunnita e ha visto il movimento democratico come un complotto iraniano. La vicina Arabia Saudita ha avuto la stessa percezione, e ha mandato il suo esercito per stroncare questo “complotto”.

Lo Yemen era un caso disperato fin dall’inizio, perché c’era già una guerra civile latente. Oggi è una guerra su vasta scala, aggravata dall’intervento di una coalizione guidata dall’Arabia Saudita che coinvolge metà dei paesi del mondo arabo, e i manifestanti non violenti sono impegnati a sfuggire alle bombe.

Se gli egiziani non avessero gettato via la loro vittoria, oggi un terzo degli arabi vivrebbe in una democrazia

Anche in Siria la situazione era complicata, perché il regime baathista al potere da oltre quarant’anni si era fatto moltissimi nemici. La minoranza alawita (sciita) che sostiene il regime era terrorizzata all’idea delle vendette che avrebbe subìto se avesse perso il potere, ed era disposta a combattere fino all’ultimo.

Ma è anche vero che Turchia e Arabia Saudita, e in seguito anche gli Stati Uniti, hanno sostenuto una rivolta armata che ha messo fuori causa il movimento non violento siriano. Quest’ultimo non ce l’avrebbe probabilmente fatta comunque, ma non ha neanche avuto la possibilità di provarci.

In Egitto in realtà le proteste non violente avevano vinto. Ma non è durata molto. I Fratelli musulmani hanno vinto le elezioni nel 2012 e la minoranza laica e urbana che aveva fatto la rivoluzione è andata nel panico e ha sostenuto l’intervento dell’esercito. I militari sono stati ben lieti di rispondere all’appello e oggi controllano di nuovo il paese, dopo un massacro di manifestanti non violenti che è stato forse anche peggiore della carneficina di piazza Tiananmen del 1989.

L’Egitto è di gran lunga il paese più popoloso del mondo arabo. Se non avesse gettato via la sua vittoria, oggi circa un terzo degli arabi vivrebbe in una democrazia. È stata davvero una grande sfortuna, ma la rivoluzione non violenta è ancora una tecnica valida, e la democrazia è adatta agli arabi come ai polacchi, ai peruviani o ai pachistani. Ma per ottenerla ci vorrà un po’ più di tempo rispetto a quanto avevamo pensato nel 2011.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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