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Lo stupro etnico di Viterbo

Non c’è nessuna contraddizione tra Francesco Chiricozzi che postava su Facebook un manifesto fascista a difesa delle donne e Francesco Chiricozzi che stupra e massacra, filmando sadicamente il tutto, una donna a Viterbo. In quel manifesto, preso dagli archivi del ventennio, la scritta imperativa, “difendila!”, si staglia sull’immagine di un uomo nero che violenta una donna bianca. Commento di Chiricozzi: “La prossima Pamela, la prossima Desirée potrebbe essere tua figlia, tua moglie o tua sorella”. Tua, tua, tua: difendila perché è una tua proprietà, ed è la riproduttrice della tua razza, della tua cultura, della tua identità, del tuo sangue. (Altro post: “Chi è a favore dello Ius soli odia la propria razza, odia la propria cultura, odia la propria identità. Essere a favore di questa legge suicida equivale a pisciare sulla tomba di tutti quegli eroi che con il proprio sangue hanno tracciato e difeso i confini della nostra nazione”). Allo stesso titolo del diritto di proprietà, quella stessa donna che va difesa dall’uomo nero può essere stuprata dall’uomo bianco, il quale la possiede per diritto naturale. Il senso della proprietà muove entrambi i gesti: quello della difesa (dall’altro uomo) e quello dello stupro. Chiricozzi, non c’è che dire, è un uomo coerente.

Sappiamo bene che questo senso del possesso muove gli stupri – nonché i femminicidi, di cui gli stupri sono solo una gradazione di poco inferiore, perché stuprare una donna è poco meno che ucciderla – a qualunque latitudine e sotto qualunque connotazione etnica e culturale. Uno stupro è uno stupro, abbiamo detto ogni volta che, da destra, si legava una violenza sessuale al colore della pelle o alla cultura dell’uomo che l’aveva commessa. Lo diciamo anche oggi, e dunque evitiamo con convinzione di rendere pan per focaccia legando lo stupro di Viterbo al colore politico degli uomini di CasaPound che l’hanno commesso (fornendone le prove con il video, il che rende superflue in questo caso le cautele dovute alla presunzione di innocenza). Il che non ci esime dal sottolineare due cose.

La prima: endemica tra i maschi di tutto il pianeta, l’ossessione del possesso della “propria” donna, unitamente alla visione della donna come sentinella della “propria” stirpe, è organica all’ideologia sovranista delle “nuove” destre montanti. Le si era già viste all’opera nei giorni del congresso sulla famiglia di Verona, e sottostanno a qualunque velleità di ripristino della sovranità, che è sempre e in primo luogo una velleità di ripristino della sovranità perduta degli uomini sulle donne. I sovranisti, del resto, non ne fanno mistero: attaccano il femminismo e la libertà femminile frontalmente ed esplicitamente, imputandoli di avere destabilizzato un ordine “naturale”, cioè “naturalmente” fondato sulla supremazia maschile, delle relazioni tra i sessi, ordine che dalla famiglia si estenderebbe alla società e allo stato così come dalla famiglia allo stato si estenderebbe oggi il disordine. Da qui a pensare che le donne sia legittimo punirle, ad esempio con lo stupro, il passo è breve, brevissimo. Come è brevissimo il passo successivo, pensare di ridurre il danno punendo gli stupratori con la castrazione chimica, come se la violenza sessuale fosse un problema di esuberanza ormonale.

Seconda sottolineatura. Si è parlato spesso e a buon diritto, negli scenari di guerra di fine e inizio secolo, di stupri etnici. E qualcuna ha fatto osservare che in un certo senso tutti gli stupri sono etnici: sempre si tratta appunto, nello stupro e tanto più nello stupro di gruppo, di affermare la proprietà su una donna di uno o più uomini della stessa stirpe, contro il fantasma dell’intrusione di un altro uomo di un’altra stirpe. Questo è precisamente il caso in cui ci troviamo in un’Italia ormai tribalizzata, dove la tribù sovranista pretende di avere la meglio sulle altre tribù indigene e su quelle straniere. Non sempre la guerra civile assume le sembianze classiche e visibili di un conflitto armato (che peraltro non è estraneo, ormai s’è capito, alle fantasie dei fautori della legittima difesa, dei travestimenti con la divisa e delle esibizioni con il mitra in mano). La guerra a neanche tanto bassa intensità che si combatte nel nostro paese sul corpo delle donne è la spia di una guerra civile sottovalutata. Fu Simone Weil a dirci, in Non ricominciamo la guerra di Troia, che la donna è sempre posta in gioco delle guerre tra uomini. A Troia in quel posto c’era Elena. Al posto di Elena oggi rischiamo di esserci tutte, e c’è poco, pochissimo da sdrammatizzare.

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