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Il corpo nero cantato da Cecile a Sanremo è una rivoluzione mancata

L’esibizione di Cecile al festival di Sanremo, il 10 febbraio 2016. (Matteo Rasero e Federico Guberti, Lapresse)

Perché Sanremo è Sanremo. Ormai lo sappiamo. Ce lo ripetono da anni. E noi ci caschiamo ogni volta. Certo facciamo un po’ gli snob in società e giuriamo a chiunque, dal droghiere alla vicina, che Sanremo non ci avrà mai. Ma la verità è che non riusciamo a farne a meno. Ed eccoci tutti a sbirciare dal buco della serratura questo mega carrozzone messo in piedi al teatro Ariston. La sua ritualità, sempre uguale a se stessa, ci incanta. Ci commuoviamo per il papillon arcobaleno di Beppe Vessicchio o per la Patty che anche se passano gli anni rimane l’eterea ragazza del Piper. L’orchestra poi è quasi una perversione. Tutti quegli archi e quei fagotti ci illudono che la vita sia perfetta.

Sanremo, naturalmente, riesce anche a tirare fuori il peggio di noi. Ed eccoci a commentare, con un alto tasso di acidità, le gaffe del valletto di turno o la mise oscena della cantante “smutandata” del momento. Diventiamo cattivi e l’attimo dopo più buoni della panna montata. La perfidia si accompagna alla lacrima. Sanremo è un rito collettivo, una religione laica, un momento in cui questa nazione chiamata Italia si veste dei suoi panni più kitsch e si trova bella. Insieme alla nazionale di calcio, Sanremo è un tassello importante di questa nostra italianità sempre in bilico.

Forse dovrei usare esempi più alti, più consoni, come l’inno, la bandiera, la costituzione nata dall’antifascismo, la festa della repubblica. Certo c’è tutto questo in noi. Ma c’è anche Sanremo, soprattutto Sanremo, con i suoi pettegolezzi, le sue paillettes, il cattivo gusto, qualche buona canzone. Ci siamo tutti dentro. E non importa se io ho i genitori somali e voi piemontesi. Ci siamo cresciuti in mezzo a questa roba. Ed ecco che nei nostri ricordi Rino Gaetano si mischia con Vasco Rossi, Anna Oxa con Fiordaliso, le meteore Jalisse con la ancora più meteora Tiziana Rivale. E a pensarci bene la canzone italiana più popolare al mondo, Volare di Domenico Modugno, è nata non a caso su quel palco ligure.

Cecile, apparentemente, non vuole rassicurare nessuno. Il suo corpo è lì. È arrabbiato. Furioso

Proprio per questo alto tasso di italianità, la partecipazione di Cecile, una black italian, per di più con una canzone dal titolo N.E.G.R.A., un brano che parla di discriminazione a ritmo di hip hop, ha suscitato grande curiosità. Soprattutto tra noi afroitaliani.

Cecile Vanessa Ngo Noug ha 21 anni ed è nata a Roma. Segno zodiacale toro. Voce ruvida molto rhythm’n’blues. Occhi intensi, che sanno cosa vogliono da questo mondo. La madre di Cecile è del Camerun. L’ha avuta a 17 anni, e la cantante ha raccontato che è stata in parte cresciuta anche da una suora, che ora considera come una sorta di supernonna. La musica è la sua passione, insieme al basket in cui è arrivata anche a risultati notevoli.


Adora Céline Dion, ma ha gusti che variano dalla musica leggera italiana al rap impegnato. Ed è proprio con una canzone catalogata dai media come “impegnata” che la cantante romana si è presentata a Sanremo. I temi sociali sono sempre stati presenti al festival, basta ricordare Luca Barbarossa che portò sul palco dell’Ariston la violenza contro le donne o a Pierangelo Bertoli che portò in scena la controcultura di sinistra. Ma il caso di Cecile è diverso. La cantante ha portato all’Ariston il suo corpo. Il suo corpo nero. “E hai paura”, canta, 
”perché sono troppo scura, troppo scura”. Cecile, apparentemente, non vuole rassicurare nessuno. Il suo corpo è lì. È arrabbiato. Furioso. Ed è su Rai 1. La più nazionalpopolare delle reti Rai. Ed è a Sanremo.

A te che guardi il mio colore come fossi extraterrestre
alla mamma che mi nota e stringe i figli a sé.
A chi all’asilo mi faceva già strane domande
come ad esempio di che colore avessi il sangue.

Naturalmente la canzone nel mondo dei black italians non è passata inosservata.

Queenia Pereira de Oliveira, della rete G2, ha scritto sulla sua bacheca Facebook (a titolo personale, non a nome dell’associazione):

Poi di base se hanno portato una canzone dal titolo “Negra” a Sanremo è perché qualcuno ovvio ha pensato che fosse “d’impatto”.
D’impatto brutto.
Al di là del titolo. Al di là del concetto che non emerge fuori per niente perché si fa molto rima anche con “la negra sta bene nuda”, il tutto è veramente di una grossa banalità e tristezza.
Nel dubbio d’impatto eh. Brutto.

Dopo il suo post, sulla bacheca di Queenia si è sviluppato un dibattito intorno alla canzone. Qualcuno le ha corretto il titolo: “E no, è N.E.G.R.A., è tipo un vedo non vedo”. Qualcun’altro ha commentato: “Ah è di Sanremo? L’hanno messa poco fa in radio ma ho cambiato Xché mi dava fastidio… hanno cercato di far passare un messaggio in un modo davvero ‘sgradevole’”. Qualcuno si è anche lanciato a difesa della cantante: “Io ho apprezzato tantissimo il testo della canzone e adoro Cecile: una giovane donna battagliera che sa il fatto suo”, e non è mancato chi ha ironizzato sulla faccenda: “S.T.R.O.N.Z.A. era più d’impatto però”.

Anche se N.E.G.R.A è stata bocciata dal televoto, la canzone ha avuto il suo piccolo momento di gloria, almeno tra gli afroitaliani. Quello che mi ha più colpito non è stato il titolo, ma la nudità della cantante. Nel video Cecile è immersa, come Marilyn Monroe, tra lenzuola bianche che più bianche non si può. Il suo corpo nero emerge da tutta questa bianchezza, coperto solo da un vaso che ne lascia intravedere le forme, la bellezza, la sensualità travolgente.

Cecile si rivolge a un tu bianco. Un tu dominante. Un tu maschio.

Le Queenia non sono contemplate nel suo discorso. Non sono loro, le sorelle nere, l’interlocutore. Non è un brano di sorellanza e nemmeno di lotta.

N.e.g.r.a., N.e.g.r.a., N.e.g.r.a.
ma quando mi vedi nuda, nuda, nuda
non te ne fotte più.

L’interlocutore è il maschio bianco capitalista. L’uomo con il potere. Quello che non se la caga alla fermata dell’autobus (come dice la canzone), ma solo tra le lenzuola.

Ascolto il brano un paio di volte e poi per essere più sicura anche una terza volta. Voglio capire cosa ha dato fastidio a Queenia e in fondo anche a me. Non è la parola negra. No, quella parola se ben usata può diventare un grido identitario, un grido di lotta, uno schiaffo ai benpensanti. Ma non è stato così. Perché nella canzone quella parola è solo un accessorio, un mezzo per scioccare, una parola costruita a tavolino.

No, non è la parola negra ad avermi dato fastidio.

Ma poi in un attimo capisco. Ecco cosa mi ricorda quel corpo nudo, esposto allo sguardo altrui. Spesso, per ragioni di studio, sono andata in giro per mercatini alla ricerca di foto del periodo coloniale italiano. A Roma se ne trovano tante a Porta Portese, per esempio. Cecile tra le lenzuola mi ha ricordato le cartoline con le donne nude che i militari italiani portavano con sé in Africa orientale tra la fine dell’ottocento e il 1941.

Sì, quelle famigerate cartoline coloniali dove eritree, somale, etiopi e libiche erano carne da macello per gli sguardi concupiscenti dei bianchi conquistatori. Donne denudate, donne preda, donne sottomesse da un regime che le voleva solo come merce, come selvaggina da possedere. Ed ecco che la donna diventava metafora del territorio da conquistare. E lo stupro diventava legale, anzi cosa buona e sana da perpetrare. Come non ricordare Indro Montanelli e la sua giovane Fatima, sposa dodicenne? Come non ricordare che nel 1969 il giornalista se ne vantava in diretta tv da Gianni Bisiach, dicendo che in fondo in Africa è un’altra cosa, perché quelle lì a dodici anni sono donne fatte e finite?

Il ruolo è sempre lo stesso, quello di un essere sottomesso al patriarcato bianco e capitalista

Di quelle cartoline mi ha sempre colpito lo sguardo delle donne. Anche se i loro corpi erano vessati, violati, sottomessi a un patriarcato orrendo (spesso anche a due patriarcati, quello dei compaesani e quello dei conquistatori), quelle donne avevano uno sguardo fiero, coraggioso. Non abbassavano mai gli occhi, c’era una sfida nel loro sguardo.

Anche in Cecile c’è la stessa sfida. Lei truccata il giusto, con un eyeliner che la definisce e un ombretto che la esalta. Lei con le sue belle treccine raccolte in una crocchia, lei che guarda dritto in camera e che urla “Negra, negra” mi ricorda tanto quelle donne. Dovrei essere contenta che una giovane donna sfidi il sistema, a modo suo. Contenta di quello sguardo che non si abbassa mai. Ma non lo sono. Perché il ruolo è sempre lo stesso, nelle cartoline come nel videoclip, quello di un essere sottomesso al patriarcato bianco e capitalista. Possibile che non abbiamo fatto, noi afroitaliane, alcun passo in avanti da quella posizione supina? Possibile che siamo ancora nude davanti al potere che ci vuole mangiare?

Il video, più che l’apparizione a Sanremo, mi ha trasmesso un senso di impotenza e di tristezza. E non l’ha mitigata la bella voce di Cecile e la sua grinta, che eppure c’è e si vede.

L’orgoglio nero di Beyoncé

Il senso di impotenza è cresciuto dopo aver visto un altro video, quello che Beyoncé ha lanciato a sorpresa prima del Super bowl, la finale del campionato della National football league statunitense. Il brano Formation e il video che lo accompagna mi hanno stesa. Beyoncé ci porta per mano dentro la sua identità di donna nera e lo fa con un orgoglio che me l’ha resa subito sorella. Beyoncé non ci mette solo l’arte, ma anche, un po’ come la Madonna dei tempi d’oro, il marketing. Infatti il brano è uscito senza nessun annuncio e con una tempistica perfetta. Non solo prima del Super bowl, ma anche il giorno dopo un anniversario importantissimo per tutti gli afroamericani, il compleanno di Trayvon Martin, ucciso dalla polizia come tanti altri giovani black.


Trayvon è un simbolo, l’America nera sa di essere letteralmente nel mirino della violenza razzista. Non solo di un terrorismo bianco che ha ucciso attraverso Dylann Roof a Charleston e altrove, ma anche di una politica incentrata sull’odio razziale, che attraverso Donald Trump sta inquinando le primarie statunitensi. Una performer come Beyoncé non ignora tutto questo nel suo lavoro. E infatti nel tempo è cresciuto il suo impegno nel movimento #BlackLivesMatter e la sua blackness, prima sotto tono, ora non solo è manifesta, ma esibita senza paure. Formation è di fatto il suggello di questo percorso umano e artistico.

Il corpo nero nel video di Beyoncé ha una storia, una genealogia, una miriade di possibilità di realizzazione.

Ed ecco che tra merletti, spettri razzisti che evocano il Ku Klux Klan, l’identità nera si riempie di storia

Siamo a New Orleans e la cantante si trova in mezzo a una distesa d’acqua, seduta su una macchina della polizia che sta affondando sotto il suo peso e il suo orgoglio di donna nera. Il pensiero corre all’uragano Katrina, che è stato non solo una catastrofe naturale, ma anche una catastrofe razziale. Dove i corpi neri, un po’ come succede nel nostro Mediterraneo, sono stati lasciati affondare. E poi sentiamo una voce che proviene letteralmente dall’oltretomba: è Messy Mya, performer queer assassinato brutalmente, che chiede cosa sta succedendo a New Orleans. E la vediamo questa città, questi corpi neri che dominano la scena.

Ci sono donne dalle capigliature afro che ballano la loro differenza con gioia. I loro ricci non sono uguali, c’è chi li ha più crespi, chi ha le extension, ma ballano insieme, si sentono sorelle, una ha perfino gli occhiali come me. Anche loro guardano dritte in camera. Ma al contrario dell’afroitaliana Cecile, non si rivolgono a un interlocutore bianco, non si rivolgono nemmeno a un patriarca nero. Loro ballano solo per se stesse. Come ballano solo per se stessi anche quei corpi scolpiti di maschi queer, che in cantine buie celebrano la loro complessità di uomini black e gay.

Ed ecco che tra merletti, case neoclassiche, spettri razzisti che evocano il Ku Klux Klan, l’identità nera si riempie di storia. Uno dei momenti più belli del video è quello in cui appare Martin Luther King sulla prima pagina di un giornale fittizio, The Truth, con il titolo a caratteri cubitali More than a dreamer, a sottolineare che il suo sogno di uguaglianza era concreto, fatto di carne e sangue. Quasi un ammonimento a non trasformarlo in un’icona accettabile e domabile dall’establishment. Il suo messaggio era rivoluzionario, sembra dirci Beyoncé. Rivoluzionario come possiamo esserlo tutti noi.

Un’occasione persa

A un certo punto del video appare la scritta “Stop shooting us”, smettete di spararci. Una scritta che ci ricorda che dopo Trayvon Martin ne sono morti tanti altri in tutti gli Stati Uniti. E, nel video, il mondo si capovolge. I bambini giocano nei loro cortili senza paura di essere arrestati, uccisi o abusati. Ballano, sognando di potere così fermare la polizia in tenuta antisommossa. Un mondo come dovrebbe essere. Un mondo che non vuole soccombere allo sguardo altrui, ma che impone – nonostante le difficoltà attuali – il suo sguardo. bell hooks in Bone Black diceva che viviamo in “a home for white folks”, un mondo a misura di bianchi.

Dove il bianco è una costruzione. Non tutti i bianchi vengono considerati bianchi. Perché quello che conta è la classe sociale.

E le diseguaglianze si fanno più manifeste.

Ma in questo mondo, e lo si deduce da ogni fotogramma di Formation, possiamo scegliere da che parte stare e come starci. Beyoncé ci ha dimostrato che in questa lotta ognuno di noi può portare se stesso con la sua complessità, i suoi capelli afro, le sue unghie, la sua identità queer, i suoi merletti, il suo dolore, la sua gioia, insomma la sua storia.

Ecco perché considero quella di Cecile un’occasione persa per noi afroitaliani. Forse in prima serata su Rai 1 potevamo andarci vestiti. Sì, vestiti con la nostra storia. Ma nessuno è perfetto. Ci serva da promemoria per la prossima volta.

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