×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

La libertà non è uguale per tutti

Una protesta contro la chiusura delle spiagge a Huntington Beach, in California, 1 maggio 2020. (Kyle Grillot, Reuters/Contrasto)

La maggior parte degli statunitensi sostiene il lockdown e vuole che il governo tenga sotto controllo la diffusione del virus prima di far ripartire l’economia. Ma una piccola minoranza chiede la fine immediata di tutte le limitazioni, anche se i casi di covid-19 continuano ad aumentare. Una parte di questa minoranza scende in piazza da settimane per contestare le misure di distanziamento sociale. I manifestanti spesso sono armati, sventolano bandiere della confederazione sudista e definiscono le misure di contenimento del virus come un atto “tirannico”, una limitazione alla loro libertà.

La maggioranza di questi contestatori – come la maggioranza di quelli che vogliono le riaperture il prima possibile – è bianca. Questo dato è in contrasto con il numero delle vittime del covid-19 (che sono in modo sproporzionato neri e ispanici), di quelli che hanno perso il lavoro a causa della pandemia (che sono in modo sproporzionato neri e ispanici) e di quelli che sono stati o saranno costretti a lavorare a causa della riapertura (cioè i lavoratori nel settore dei servizi, che sono, anche loro, soprattutto neri e ispanici).

È vero che non tutte le disparità etniche sono la prova di qualche dinamica legata al razzismo. Ma questa lo è sicuramente. Non si può separare la violenza dei manifestanti contro il lockdown dal loro essere bianchi. La loro richiesta di “riaprire” l’economia è evidentemente legata alla consapevolezza che molte delle persone più colpite appartengono ad altri gruppi etnici. Questo non significa tanto che stiano mostrando un’ostilità razziale (anche se in alcuni casi è così), ma che la loro concezione di “libertà” sia, alla radice, intimamente legata alla loro identità etnica.

Negli Stati Uniti essere bianchi ha determinato il diritto al controllo e a essere liberi dal controllo

Nell’articolo Whiteness as property (L’essere bianchi come proprietà), uscito nel 1993 sulla Harvard law review, la giurista Cheryl Harris ha ricostruito lo sviluppo dell’identità bianca, spiegando in che modo questa abbia assunto privilegi e benefici che ne hanno fatto una risorsa sociale, politica ed economica nel contesto di una società schiavistica: “Visto che i bianchi non potevano essere ridotti in schiavitù, il confine tra bianchi e neri era decisivo. L’essere bianchi era la caratteristica degli esseri umani liberi”.

Essere bianchi quindi significava avere il controllo su se stessi e sul proprio lavoro. Significava essere soggetti solo alla propria volontà. Se, per esempio, Thomas Jefferson, il terzo presidente degli Stati Uniti, non riuscì a sostenere l’emancipazione pur rendendosi conto dell’ingiustizia della schiavitù, fu in parte per motivi d’interesse, in parte per paura, e in parte perché non poteva pensare ai neri come cittadini a pieno titolo a causa della loro esperienza di schiavi, che li aveva segnati come inferiori. Essere bianchi significa essere liberi dalla dominazione e dal controllo. L’altro aspetto, in una sorta d’inversione ideologica, è il diritto di controllare la presenza e le vite di chi non è bianco. Questa dinamica attraversa tutta la storia degli Stati Uniti.

Se essere bianchi ha determinato il diritto al controllo e a essere liberi dal controllo, allora è facile vedere in che modo l’identità etnica potrebbe aver influenzato le reazioni di alcuni statunitensi bianchi al lockdown. Le restrizioni sono state considerate una violazione intollerabile del contratto sociale, per come viene inteso da queste persone. Le misure secondo loro vanno contro il significato dell’identità etnica, della libertà che questa comporta. E i manifestanti affermano l’altro aspetto della libertà dei bianchi, il diritto al controllo.

Si può osservare questo fenomeno a vari livelli. Il presidente Donald Trump ha incoraggiato i manifestanti e ha ordinato la riapertura degli impianti dove si lavora la carne in base al Defense production act (una legge approvata ai tempi della guerra di Corea), attribuendosi così il potere di obbligare i lavoratori di quel settore – in maggioranza neri e ispanici – a tornare al lavoro nonostante il pericolo di contagio. Allo stesso modo quando Rebecca Bradley, giudice della corte suprema del Wisconsin, ha paragonato la decisione del governatore di imporre il lockdown all’internamento dei giapponesi durante la seconda guerra mondiale stava ribadendo la distinzione tra chi merita autonomia e chi non la merita.

L’ironia della cosa, naturalmente, è che il concetto di libertà, inserito all’interno della gerarchia etnica e usato per giustificare privazioni e disuguaglianze, è da sempre insufficiente se paragonato a una visione inclusiva di cosa significhi essere liberi. Durante una pandemia la richiesta di libertà significa, in sostanza, chiedere di essere liberi di morire e di mettere in pericolo chi ci sta vicino. La maggior parte degli statunitensi, compresa la maggior parte dei bianchi, ha respinto questa visione mortifera della libertà. Tra quelli che non l’hanno fatto, tuttavia, ci sono le persone che guidano il governo. Perciò questa “libertà” rimane una forza potente e pericolosa con cui gli statunitensi devono fare i conti.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul numero 1358 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

pubblicità