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Le due verità americane che emergono da Las Vegas

Las Vegas, il 1 ottobre 2017. (David Becker, Getty Images)

Oltre alle molte persone uccise e alle centinaia rimaste ferite a Las Vegas, migliaia di altre persone, anche se non visibilmente o direttamente colpite, hanno visto la loro vita cambiare per sempre. Figli e genitori. Mariti e mogli. Fratelli e sorelle. La loro vita è stata per sempre privata di qualcosa. Colleghi e amici. Membri di una chiesa, di campionati sportivi o di associazioni di genitori e insegnanti. Clienti e studenti. Vicini o conoscenti da bar. Il resto dei loro giorni sarà diverso e più cupo a causa di questo massacro. “Bambini, voglio spiegarvi perché il signor Franklin non allenerà più la nostra squadra di calcio. È successa una cosa brutta e…”.

I morti e i feriti, insieme alla loro famiglia e ai loro amici, meritano naturalmente il massimo del sostegno e della comprensione. Ma i loro concittadini dovrebbero riflettere su due oscure verità che questo episodio sottolinea. Stavo per finire questa frase con il verbo “rivela”, ma non sarebbe corretto, perché si tratta di cose che già sapevamo.

La prima cosa è che gli Stati Uniti non metteranno fine ad attacchi del genere, che continueranno a verificarsi. Lo sappiamo tutti e la cosa rende il lutto all’indomani degli eventi ancora più doloroso. Cinque anni fa, dopo l’ennesima orribile strage, avevo scritto un articolo intitolato The certainty of more shootings. Parlava del massacro avvenuto in un cinema di Aurora, in Colorado, e dopo aver parlato delle vittime scrivevo: “Quel che è triste, orribile e disarmante, inoltre, è che l’idea condivisa tra gli statunitensi è che tutto questo avverrà di nuovo, indubbiamente, e che avverrà negli Stati Uniti ancora molte altre volte prima che in un qualsiasi altro posto”.

Nessun’altra società permette che massacri del genere continuino

Quelle parole continuano a essere valide anche oggi. E mi aspetto che lo rimangano anche tra cinque anni. Ho una visione perlopiù ottimistica della capacità di adattamento e della resilienza degli statunitensi, ma non credo sia possibile ribaltare la decisione implicita che hanno preso gli Stati Uniti, ovvero fare sì che questi omicidi continuino.

Una decisione? Sì. Altre società avanzate vivono esplosioni di violenza di massa con armi da fuoco. La Scozia nel 1996. L’Australia nello stesso anno. La Norvegia nel 2011. Ma solo negli Stati Uniti avvengono con questa regolarità.

Il modo in cui l’Australia ha reagito al massacro di Port Arthur è il più noto: un governo conservatore ha approvato un’importante riforma delle armi da fuoco e da allora il paese non ha avuto nessun altro episodio lontanamente paragonabile.

La reazione della Scozia al suo massacro, a Dunblane, è meno nota ma ugualmente significativa. La sparatoria di Dunblane è stata la versione scozzese del massacro di Newton negli Stati Uniti. Un uomo armato ha ucciso 16 studenti e un insegnante, prima di suicidarsi. Il giornale scozzese Sunday Herald ha scritto su quello che è successo dopo:

Nonostante le misure di controllo delle armi avviate dopo Dunblane, circolano ancora molte pistole nel Regno Unito… Nei dieci anni tra il 2003 e il 2012, ci sono stati 182 casi segnalati di uso di armi da fuoco in scuole o università nel paese. Eppure è significativo notare come le misure di controllo sulle armi avviate dopo il 1996 abbiano funzionato. L’anno del massacro di Dunblane gli omicidi per arma da fuoco nel Regno Unito sono stati 84, il massimo mai registrato. Oggi questi omicidi sono scesi a meno di un terzo di tale cifra. In Inghilterra e Galles, tra il 2012 e il 2013, la polizia ha rilevato trenta omicidi per arma da fuoco, 12 meno dell’anno precedente nonché la cifra più bassa da quando, nel 2002, è stato introdotto un criterio nazionale di misurazione del crimine. Oggi in Scozia le armi da fuoco sono responsabili del 2 per cento degli omicidi e le morti per questo motivo sono decisamente calate dopo l’introduzione di queste leggi sulle armi personali.

Tre anni dopo l’attacco di Aurora, ho scritto un articolo di aggiornamento sui massacri da arma da fuoco che ci sono stati da allora. Il conto dei morti non si ferma.

Nessun’altra società permette che massacri del genere continuino. Nel mondo tutti sono al corrente di questa caratteristica degli Stati Uniti. È il peggior aspetto dell’identità nazionale statunitense.

Differenze di trattamento
Ed ecco l’altra oscura verità sugli Stati Uniti che la strage di Las Vegas ci fa ricordare. L’identità dell’omicida non fa differenza quanto al numero dei morti o al dolore che colpisce le loro famiglie e comunità. Ma sappiamo che invece ci saranno grosse differenze nel modo di trattare i fatti sui mezzi d’informazione e in politica, e che questo dipende dal fatto che l’assassino sia o meno “semplicemente” un uomo bianco con un nome che non suona straniero.

Perché è questo il più delle volte il profilo di chi compie queste stragi, da Charles Whitman, autore del massacro all’Università del Texas nel 1966, in poi. E da Whitman in poi, gli assassini di questo genere sono descritti come “disturbati”, “psicolabili” o “rabbiosi”, come se i loro crimini fossero un riflesso del loro tormento personale e non di tendenze o fenomeni più ampi della società.

Sono giovani “problematici”, come gli adolescenti bianchi che hanno sparato ai loro compagni di classe a West Paducah, in Kentucky, nel 1997, oppure i due adolescenti bianchi che hanno ucciso i loro compagni a Columbine, in Colorado. O degli anziani disturbati, come il sessantenne bianco che ha sparato durante la partita di baseball del congresso degli Stati Uniti quest’estate. O ancora (come emerge dalle prime notizie) del sessantenne bianco che oggi ha ucciso così tante persone. Una relazione sull’uomo che ha sparato durante la partita di baseball parlava della sua “discesa negli abissi della rabbia”.

Queste persone sono sicuramente disturbate, rabbiose e psicolabili, e non è ancora nota tutta la storia personale dell’assassino di oggi. È possibile che emergano motivazioni e legami che esulano da quanto stava accadendo nel suo cervello. Ma sappiamo che se gli assassini non fossero stati bianchi con nomi “normali”, la responsabilità dei loro crimini non sarebbe attribuita unicamente a loro stessi e alla loro tormentata psiche.

  • Se avessero nomi dal suono arabo, si tratterebbe di un nuovo episodio di jihad. Quante volte Donald Trump ha invocato “San Bernardino” nei suoi discorsi per riferirsi alla minaccia terroristica nel nostro paese?
  • Se fossero stati messicani, la cosa dimostrerebbe i pericoli legati all’immigrazione e al fatto che il Messico non “manda qui i suoi cittadini migliori”.
  • Se fossero stati migranti irregolari, la cosa avrebbe sottolineato l’urgenza di reprimere maggiormente, e più duramente, il fenomeno.
  • Se fossero stati neri, tremo al solo pensiero delle conseguenze.

È questo che siamo.

Stavo per aggiungere “se non decidiamo di cambiare”, ma sarebbe stato quel genere di nota ottimistica obbligatoria che si aggiunge, perché così vuole la tradizione, alla fine di un discorso.

È questo che siamo.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito su The Atlantic.

This article was originally published in TheAtlantic. Click here to view the original. © 2017. All rights reserved. Distributed by Tribune Content Agency.

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