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L’ombra del populismo sul voto nelle Filippine

Manifesti del candidato presidenziale Rodrigo Duterte a Manila, nelle Filippine, il 7 maggio 2016. (Lam Yik Fei, Getty Images)

Se uno dei suoi figli si drogasse, lo ucciderebbe. Di politica, si vanta di non capire granché, perché quello che gli preme su tutto è l’eliminazione (fisica) dei criminali o presunti tali, che promette di far fuori con esecuzioni sommarie nei primi mesi di mandato. Se sarà eletto, ha avvertito, il suo sarà un “governo sanguinario”, perché “chi ha paura di morire o di uccidere non può fare il presidente”.

Rodrigo Duterte, 71 anni, ex sindaco di una delle principali città delle Filippine e dato per favorito alla elezioni presidenziali che si tengono oggi, è stato paragonato a Donald Trump per le dichiarazioni scioccanti che hanno puntellato la sua campagna elettorale e che hanno fatto sgranare gli occhi anche ai più navigati. Rispetto al candidato repubblicano statunitense, però, Duterte minaccia di essere anche peggio. Il vantaggio nei sondaggi, che gli assegnano il 33 per cento delle preferenze contro il 24 della seconda favorita, Grace Poe, sta mettendo in allarme l’establishment del paese e la parte più assennata della popolazione, che temono una svolta autoritaria e un ritorno della dittatura.

La maggioranza degli elettori sembra perdonargli tutto purché mantenga la sua promessa di cambiamento

Da parte sua Duterte, tanto rozzo quanto schietto, non ha mai dissimulato il suo lato più violento ammettendo, per esempio, il suo legame con i Davao death squads, i vigilantes che dalla fine degli anni novanta nella città di Davao – da lui amministrata per buona parte degli ultimi 28 anni – hanno ucciso più di un migliaio di presunti criminali e trafficanti di droga.

Più recentemente si è detto dispiaciuto di non aver abusato per primo di una “bella” suora australiana stuprata e uccisa durante una rivolta in un carcere. Agli ambasciatori di Australia e Stati Uniti indignati per questa dichiarazione, Duterte ha risposto di “chiudere la bocca”. Nonostante questo, e nonostante abbia perfino dato del “figlio di puttana” al papa, le cattolicissime Filippine, o almeno la maggioranza degli elettori, sembrano perdonargli tutto purché mantenga la sua promessa di cambiamento.

Duterte è stato l’ultimo a candidarsi, presentandosi come un outsider rispetto a quattro sfidanti troppo identificabili con la politica tradizionale, dominata dal familismo e dalla corruzione. Su questi due grandi punti deboli del panorama politico filippino s’incunea e cresce il populismo di Duterte, che rischia di fare incetta di voti tra gli elettori stanchi di essere governati dai “figli di”.

Il candidato appoggiato dal presidente Benigno ‘Noynoy’ Aquino non ha troppe speranze di farcela

Così, sembra non avere chance Manuel “Mar” Roxas, ex ministro dell’interno e candidato del Partito liberale (al governo), nipote di Manuel Roxas, presidente dal 1946 al 1948, e figlio dell’ex senatore Gerardo. Roxas, che nel 2010 ha puntato senza successo alla vicepresidenza, è il candidato sostenuto dal presidente uscente, Benigno “Noynoy” Aquino, figlio di Ninoy e Corazón Aquino, oppositori del regime di Ferdinand Marcos. Quando Ninoy fu ucciso dal dittatore lasciò alla moglie Corazón la guida della lotta contro il regime. “Cory” Aquino è stata presidente dal 1986, dopo la cacciata di Marcos, al 1992 (i presidenti restano in carica per un solo mandato di sei anni) ed è morta nel 2009. Passati i quaranta giorni di lutto, il figlio Noynoy si è candidato alle elezioni del 2010, che ha vinto otto mesi dopo con una valanga di voti.

Ma il candidato alla successione che Noynoy ha scelto di appoggiare non è ben piazzato nei sondaggi: Roxas è dato per terzo, subito dietro Grace Poe, la candidata “dal volto pulito” che per correre ha dovuto rinunciare alla nazionalità statunitense. Figlia adottiva di una coppia di star del cinema locale, Poe è una senatrice che, pur non appartenendo a nessuna delle dinastie politiche del paese, è percepita come vicina all’establishment economico e, dopo essere stata in testa ai sondaggi fino a pochi mesi fa, adesso è nettamente in svantaggio rispetto a Duterte.

Sempre più lontano dal podio, infine, c’è un altro candidato espressione della classe dirigente: il vicepresidente uscente Jejomar Binay, 73 anni, ex sindaco di Makati, centro degli affari e della finanza del paese, partito già zoppicante nella corsa verso la presidenza per via di diverse accuse di corruzione che lui definisce “politicamente motivate” ma che probabilmente lo penalizzeranno alle urne.

I filippini sono pronti a votare l’uomo forte, anche a costo di qualche deroga alla legalità

La maggior parte dei filippini vuole un cambiamento: in quale direzione porti questo cambiamento è un elemento secondario. Evidentemente i risultati positivi di sei anni di governo Aquino – in termini di crescita economica, aumento degli investimenti stranieri, aumento delle rimesse degli emigrati, miglioramento della sicurezza interna e progressi in politica estera – non sono bastati. I benefici della crescita del 6 per cento all’anno (una delle più alte della regione) non hanno avuto ricadute tra la maggioranza della popolazione, in cui rimangono vaste sacche di povertà estrema, soprattutto nelle zone rurali. Per non parlare della corruzione a cui Aquino aveva giurato battaglia, che invece resta endemica e diffusa a tutti i livelli. L’occupazione è aumentata ma allo stesso tempo è cresciuto anche il ricorso ai contratti atipici, a breve termine e senza tutele, che riguardano ormai 35 milioni di working poor. I lavoratori che hanno redditi troppo bassi per far fronte alle esigenze primarie sono più della metà della forza lavoro.

Sono questi i problemi che più stanno a cuore ai filippini e per i quali sono pronti a votare un uomo forte, che a costo di qualche deroga alla legalità prometta di “mettere le cose a posto”. Facilmente, dunque, dimenticano i successi in politica estera (Aquino ha stupito tutti sfidando la Cina e le sue rivendicazioni territoriali nel mar Cinese meridionale) o i timidi progressi nei negoziati di pace con i ribelli islamisti di Mindanao, l’isola meridionale di cui Davao, la città a lungo governata da Duterte, è la capitale commerciale e industriale.

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