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Primavere e autunni, la storia poco nota della comunità cinese di Milano

Primavere e autunni. (Per gentile concessione di BeccoGiallo)

Il primo ristorante cinese di Milano aprì nel 1962 in via Fabio Filzi, vicino alla stazione Centrale. Presto ne comparvero altri e i ravioli al vapore e gli involtini primavera entrarono a far parte delle abitudini gastronomiche dei milanesi.

Ma soprattutto diventarono luoghi d’incontro per la comunità cinese, già all’epoca piuttosto folta e formata da famiglie miste, nate dai matrimoni tra i primi commercianti, arrivati all’inizio degli anni trenta dalla Cina orientale con valigie piene di chincaglierie da vendere come ambulanti, e ragazze milanesi di origini umili ma di vedute abbastanza ampie da superare le convenzioni e sposare uno straniero con gli occhi a mandorla.

Nel 1940 a Milano vivevano già circa duecento cinesi. Oggi la comunità conta circa 28.400 residenti e ha il suo fulcro nella zona di via Paolo Sarpi, dove all’inizio degli anni cinquanta nacque la prima associazione dei commercianti cinesi della città.

La comunità cinese più grande d’Italia
La storia dei pionieri partiti dai villaggi del distretto del Qingtian, nello Zhejiang, alla ricerca di nuovi mercati in varie città europee tra cui Milano, la raccontano Matteo Demonte e Ciaj Rocchi in Primavere e autunni, un fumetto uscito nel 2015 per BeccoGiallo, arricchito da un’appendice storica del sinologo e sociologo delle migrazioni Daniele Brigadoi Cologna. Una fonte preziosa per chi sa poco o nulla delle origini della comunità cinese più grande d’Italia.

Primavere e autunni.

Matteo Demonte è nipote di Wu Li Shang, arrivato a 26 anni alla stazione Centrale un giorno del 1931 con un bagaglio di cravatte e bigiotteria e l’indirizzo di un suo compaesano che, partito dieci anni prima, aveva organizzato nel capoluogo lombardo un giro di venditori ambulanti. Ripercorrendo la vita del nonno materno, che nella Milano delle case di ringhiera e del bucato alle fontane pubbliche conosce e sposa la sarta Giulia Bazzini, con cui farà tre figli, Demonte racconta la storia di una comunità che oggi si è arricchita dei nipoti e bisnipoti di quei primi immigrati e delle migliaia di nuovi arrivati.

Lo stile grafico, come spiega Ciaj Rocchi nella postfazione, rimanda alle inquadrature cinematografiche, con tavole orizzontali che richiamano il formato video con cui gli autori hanno particolare dimestichezza. E come in un documentario che attinge a un ricco materiale d’epoca – gli album di foto degli Wu e i racconti della nonna che Demonte ha ascoltato da bambino – la vita di questa famiglia ibrida, dove si parla il dialetto milanese perché allora non si usava imparare una lingua straniera, si srotola attraverso decenni di enormi trasformazioni per l’Italia e per la Cina.

Una storia che procede su un doppio binario e alterna le vicende italiane a quelle della Cina nazionalista prima e di quella comunista poi: dalle leggi razziali, che vietano i matrimoni misti al dopoguerra, quando gli ex ambulanti si mettono in proprio e si avviano verso il boom economico. Dagli anni sessanta, quando i bambini italocinesi cominciano a trascorrere le vacanze estive nella colonia organizzata da padre Andrea, arrivato anche lui dalla Cina, agli anni di piombo, che coincidono con la vecchiaia di Wu.

Primavere e autunni.

Cittadini di un paese nemico
Quando, nel 1940, l’Italia fascista, che in virtù del patto tripartito sosteneva il disegno imperialista del Giappone in Asia, entrò in guerra, i cinesi residenti nella penisola (comprese le mogli, che sposandosi avevano acquisito la cittadinanza dei mariti e perso la propria, e i figli) furono dichiarati “cittadini di un paese nemico” e la maggior parte internata in campi di concentramento.

Dal rastrellamento si salvarono i titolari di imprese commerciali ormai avviate a Milano, probabilmente – spiega Brigadoi Cologna – perché meglio inseriti e con conoscenze negli ambienti giusti. I protagonisti di quell’ondata migratoria, che avevano lasciato la Cina prima della vittoria di Mao Zedong nel 1949, si trovarono di fronte a un bivio quando, nel 1969, la Repubblica popolare cinese fu riconosciuta ufficialmente dalle Nazioni Unite.

A quel punto la scelta era tra il dichiarare fedeltà alla Cina comunista o diventare cittadini di Taiwan, dove il nazionalista Chiang Kai-shek era fuggito facendone la sede della Repubblica di Cina. Alcuni scelsero la seconda strada, rinunciando per sempre alla possibilità di rivedere un’ultima volta il paese d’origine.

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